lunedì 20 agosto 2012

Due storie, un'unica lotta. Per i diritti

Due storie. Due storie fanno capolino sulle prime pagine dei giornali in questi giorni. Sono due storie alle quali normalmente sarebbe stato dedicato meno spazio ma, complice la consueta penuria di notizie ferragostana, stanno godendo di una certa risonanza.
La prima è la storia di tre ragazze russe poco più che ventenni, le Pussy Riot che, stufe dell'oppressione del loro governo verso chi manifesta liberamente il proprio pensiero, hanno deciso di cantare una canzone contro il loro presidente illiberale sull'altare della cattedrale più importante della nazione. Con questo gesto, figlio illegittimo della società della comunicazione, si sono accaparrate l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale che le sta sostenendo nel processo che le vede imputate per quell'efficace atto di protesta e che si è concluso con una condanna a due anni di lavori forzati, senza condizionale. «Esistono ancora i lavori forzati?» si sono chiesti i più.
L'altra storia è quella di un personaggio un po' più accorto nel ribellarsi al sistema, Julian Assange. Assange è uno che ci sa fare con il computer e due anni fa ha creato un sito web, Wikileaks che, servendosi delle cosiddette "gole profonde" all'interno delle organizzazioni governative e non, svela i segreti del potere, le verità indicibili che gli stati nascondono, i crimini che essi compiono e poi vogliono insabbiare. Da quando Assange ha cominciato il suo lavoro non ha più un attimo di respiro, dovendosi difendere da un accerchiamento internazionale sempre più stretto. Sul suo capo pendono due accuse di molestie sessuali che fanno acqua da tutte le parti ma che le autorità svedesi usano come pretesto per poterlo estradare nel proprio paese, dal quale poi essere condotto negli Stati Uniti dove probabilmente lo attende il boia. Così Assange si è visto costretto a barricarsi all'interno dell'ambasciata londinese dell'Ecuador (unico stato ad avergli concesso asilo politico), dalla quale non può uscire senza rischiare la deportazione.
Queste due storie, in apparenza, possono sembrare di secondaria importanza. Chi è preoccupato perché non riesce a trovare un posto di lavoro o perché non riesce ad arrivare alla fine del mese, sentendo parlare in tv delle Pussy Riot o di Assange, volgerà i propri pensieri da un'altra parte quando non cambierà canale. In realtà, queste due storie sono il simbolo di una lotta, una lotta che esiste da quando esiste l'uomo: la lotta per i diritti umani. Nello specifico, il diritto di manifestare liberamente i propri pensieri. Qualcuno potrebbe pensare che questo tipo di diritti siano stati raggiunti nel dopoguerra, con la sconfitta dei totalitarismi, e da allora siano al sicuro. Ma non è così. Ogni giorno i vari gruppi di potere del mondo, siano essi governi, multinazionali o altro, cercano in ogni modo di ridurre gli spazi di libertà, per aumentare il loro controllo e il loro potere. Contro di essi si battono, spesso nella più completa solitudine, uomini e donne che hanno capito che di questa lotta varrà il mondo che lasceremo ai nostri figli. Noi abbiamo il compito di trasmettere loro i diritti conquistati dai nostri avi così come li abbiamo ereditati. Dipende da noi fare in modo di lasciargli un mondo dove regnano la libertà, la giustizia e la pace e non un luogo dove prevaricazione e ingiustizie siano la regola.
Per questo è nostro dovere continuare a parlare di questi episodi simbolo ma soprattutto è nostro dovere sostenere le persone e le organizzazioni impegnate in questa battaglia, anche quelle che non possono godere delle trombe dei mass media.

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