lunedì 19 dicembre 2016

Cos'è la sinistra, secondo Barca

Dare un significato alle cose di cui si parla è sempre il primo passo da fare per avere un po' di chiarezza e discutere in modo proficuo. Per questo sono sempre stato interessato a dare un significato alle etichette di destra e sinistra usate in politica. Oggi mi sono imbattuto in questa definizione di sinistra data da Fabrizio Barca in un articolo pubblicato dall'Huffington Post. La riporto perché non passi in sordina e come contributo al dibattito, senza pensare che possa essere la definizione definitiva, dato che dubito possa esistere una definizione definitiva.

A chi mi riferisco con "sinistra"? A tutti coloro che ritengono l'articolo 3 il punto più alto della nostra Costituzione, laddove stabilisce che è "compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". In queste parole, eterodosse e moderne, punto di incontro delle culture liberal-azionista, social-comunista e cristiano-sociale che ancora innervano il paese, c'è un'indicazione secca sulla missione principale non solo dello Stato ma della Repubblica intera - del privato, del sociale, del pubblico. E' la missione dell'inclusione o dell'avanzamento sociale. Compiere ogni sforzo possibile per mettere cittadini e lavoratori nella condizione di vivere la vita che è nello loro corde vivere. Proprio ciò che moltissimi sentono mancare.
A questa fondamentale discriminante potrei aggiungere che essere di sinistra vuol dire anche essere convinti che il capitalismo produce innovazione, avanzamento sociale e persino tutela dell'ecosistema, solo se esso viene continuamente incalzato con la necessaria ruvidezza da cittadini e lavoratori organizzati: la risoluzione delle separazioni del capitalismo (fra lavoro e capitale, controllo e proprietà del capitale, persona e consumatore) a favore dell'avanzamento sociale richiede conflitto. Altri preferiranno una diversa declinazione. Qui basta il riferimento all'articolo 3. Basta per riconoscere che di sinistre ne esistono tante, organizzate (all'interno del PD e di altri corpi intermedi, tradizionali e nuovi), meno organizzate o del tutto informali (all'interno di forme nuove di militanza, di cittadinanza attiva, di antagonismo).

venerdì 9 dicembre 2016

Post Referendum: cosa succede ora



Se non siete appena tornati da un’isola deserta, già lo sapete: il referendum di domenica 4 dicembre ha respinto a larga maggioranza la riforma della costituzione del governo Renzi. Il “no” ha vinto con quasi il 60% dei consensi contro il 40% del “sì”. Anche l’affluenza è stata più alta delle aspettative: il 65% degli italiani si è recato alle urne, il 68% se escludiamo il voto all’estero. Segno che questo referendum è stato molto sentito.
La conseguenza più immediata del voto sono state le dimissioni di Matteo Renzi, annunciate nella notte dello spoglio e formalizzate la sera di mercoledì 7 dicembre, dopo l’approvazione della legge di bilancio. Si è aperta dunque la crisi di governo. Le dimissioni del presidente del consiglio implicano infatti la fine dell’intero esecutivo. Le decisioni sul da farsi spettano ora al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Quindi, cosa può succedere adesso? Abbiamo davanti tre scenari: le elezioni anticipate, un altro governo guidato da Renzi o un nuovo governo guidato da altri.
La seconda ipotesi rimane molto improbabile: è da mesi che Renzi minaccia le dimissioni in caso di sconfitta al referendum. Quindi è difficile che accetti di restare a palazzo Chigi ed è difficile che accetti di tornarci senza essere passato prima da nuove elezioni.
La prima ipotesi è quella auspicata da molti ma, eccetto la Lega, tutti gli altri chiedono che si voti soltanto dopo aver modificato la legge elettorale. Ma per farlo, potrebbe essere necessario un nuovo governo e si arriva quindi alla terza ipotesi.

Per capire questo punto però, dobbiamo fare un passo indietro. La legge elettorale è il meccanismo con cui i voti vengono tramutati in seggi parlamentari. Oggi la Camera e il Senato si ritrovano, a seguito di varie vicissitudini, con due leggi molto diverse. E questo, in caso di nuove elezioni, potrebbe rappresentare un problema serio perché ci ritroveremmo con un parlamento in cui non si riesce a trovare una maggioranza in entrambe le camere che voti la fiducia al governo.
Vediamo cosa succederebbe se andassimo a votare in questo momento. Secondo i sondaggi, lo spettro politico è diviso in tre poli, tutti intorno al 30% dei consensi: il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e un polo di centrodestra suddiviso tra Forza Italia e Lega. Questo status quo, alla Camera verrebbe tradotto in seggi dall’Italicum, in base al quale il partito che arriva primo (in un unico turno o con un ballottaggio) conquista il 55% dei seggi. Il resto va a tutti i partiti di opposizione, a patto che abbiano superato la soglia del 3% dei voti.
Al Senato, è invece in vigore il cosiddetto Consultellum, ossia la legge con cui si è votato alle ultime elezioni politiche così come è stata modificata dalla corte costituzionale. In base a questo sistema elettorale, la percentuale di seggi che ogni partito ottiene è esattamente la percentuale di voti presi alle elezioni, a patto che abbia superato la soglia di sbarramento dell’8%. L’effetto combinato di queste due leggi elettorali e dell’attuale distribuzione del consenso fra i partiti sarebbe quello di dare alla forza politica che prende più voti la maggioranza alla camera, mentre dovrebbe cercarsi degli alleati di governo al senato. Il risultato è un rischio paralisi: se vincesse il Movimento 5 Stelle, sappiamo che non vuole fare alleanze con nessuno; ma anche se fosse il Partito Democratico ad uscire vincente dalle urne, dovrebbe allearsi con Forza Italia e con un altro partito, ma nessun altro sarebbe disposto ad entrare in una coalizione simile stando alle posizioni attuali. Lo stesso vale se dovesse vincere un’eventuale coalizione di centrodestra.
Questo ci fa capire perché Mattarella, come è emerso nelle ultime ore, non è disposto a sciogliere le camere con l’attuale sistema elettorale. Tanto più che la corte costituzionale si esprimerà il prossimo 24 gennaio sull’Italicum, la legge vigente alla Camera, e potrebbe apportarvi delle modifiche consistenti.

Dunque, cosa succederà adesso? Nelle prossime ore, il presidente Mattarella terrà una serie di consultazioni con i gruppi parlamentari per verificare la loro disponibilità a dare vita ad un nuovo governo. Come dicevamo, l’esito più probabile è la nascita di un nuovo esecutivo senza Renzi, ma sostenuto dalla sua stessa maggioranza, quindi dal Pd, dal Nuovo Centro Destra di Alfano e dai gruppi centristi come l’Udc di Casini, oltre che dall’incognita di Ala di Verdini. 
Chi potrebbe guidare il nuovo governo? Sono 5 i nomi che passano di bocca in bocca in questi momenti: quello di Piero Grasso, l’attuale presidente del senato; quello di Pier Carlo Padoan, il ministro dell’economia uscente; quello di Dario Franceschini, ministro della cultura; quello di Paolo Gentiloni, ministro degli esteri e quello di Graziano Delrio, ministro delle infrastrutture.

Sui compiti e sulla durata del nuovo esecutivo, sarà tutto da vedere. Di sicuro, la sua priorità sarà quella di dare al paese una nuova legge elettorale che garantisca un minimo di stabilità dopo le prossime elezioni politiche. Sulla sua durata, va considerato che la prossima primavera vedrà due appuntamenti importanti che richiedono un governo nel pieno dei suoi poteri: a fine marzo ci saranno le celebrazioni del Trattato di Roma che ha istituito la Comunità Europea e a fine maggio si terrà il G7 a Taormina. Inoltre, i parlamentari alla prima legislatura potrebbero essere restii a consentire elezioni anticipate prima della metà di settembre, quando acquisiranno il diritto alla pensione. Quindi le prossime elezioni si terranno con buona probabilità nell’autunno 2017 o all’inizio del 2018.

venerdì 2 dicembre 2016

Solo un'altra cosa sul Referendum...

Vorrei aggiungere solo un’altra cosa al dibattito nel merito della riforma costituzione su cui voteremo domenica, in particolare sul bicameralismo perfetto. Ora, personalmente non ho preferenze a riguardo di un bicameralismo paritario piuttosto che differenziato, per me tutto dipende da come viene pensato e strutturato. Però, se proprio uno vuole risolvere il problema della navetta - o del ping pong, com’è chiamato ora - in un sistema come quello italiano attuale, sarebbe bastato guardare agli altri due piccoli esempi di bicamerismo perfetto nel mondo: gli Stati Uniti e l’Unione Europea. In entrambi i casi, le due camere (per quanto riguarda l’Ue, mi riferisco al Parlamento e al Consiglio, che possono tranquillamente venire considerati tali) devono approvare un testo nella medesima forma perché diventi legge. Per evitare di rimbalzarselo in continuazione, se il primo tentativo non va in porto, i rappresentanti delle due camere si siedono ad un tavolo e trovano una mediazione che possa andare bene a tutti. In Europa, si chiama “Comitato di Conciliazione”. A quanto pare, per risolvere i problemi del bicameralismo perfetto, non serviva creare una dozzina di nuovi procedimenti legislativi, con oscuri elenchi di competenze ed eccezioni. Ma si sa, noi italiani dobbiamo sempre complicarci la vita.

Cosa voto al Referendum

Domenica si vota il referendum sulla riforma della Costituzione. Con Muovere Le Idee abbiamo cercato di fornire tutti gli strumenti per informarsi, da un video di 15 minuti ad un dibattito di un’ora e mezza, insieme ad un sacco di link per approfondire. Si trova tutto qui.
Mancano due giorni, quindi è ora che anch'io vi dia la mia opinione non richiesta a riguardo, come sta già facendo tutta la vostra bacheca di Facebook.
Se state cercando argomenti forti e toni urlati, avete sbagliato indirizzo. Non parteciperò a questa battaglia di fango e slogan a cui stiamo assistendo da molti mesi ormai. A farmi scaldare non sarà certo una riforma né carne né pesce come questa.
Io la riforma l’ho letta. E, pur essendo ignorante su molte cose, la Costituzione e le istituzioni sono argomenti su cui sono abbastanza ferrato. Proprio per questo mi sento di dire la mia.
A mio avviso, l’obiettivo della riforma di semplificare e razionalizzare resterà una mera speranza. Se anche uno può condividere queste finalità, le soluzioni trovate sono assolutamente sbagliate. Nel migliore dei casi, resterà tutto complicato e inefficiente come è adesso, semplicemente con procedure diverse. Nel peggiore dei casi, avremo stato e regioni in perenne conflitto (di nuovo, come dopo la riforma del 2001) e un parlamento paralizzato, il che favorirà un governo forte capace di fare il bello e il cattivo tempo. Una riforma che, con il presunto obiettivo di semplificare e velocizzare, ridurrebbe gli spazi di confronto. Non a caso in quei pochi punti in cui sembra aprire ad una maggiore partecipazione dei cittadini alla politica, in realtà si rimanda tutto a leggi successive, che chissà se arriveranno mai.
Con la logica del cambiamento fine a se stesso e della velocità, non si va da nessuna parte. In un paese messo in ginocchio dalla criminalità organizzata, dalla corruzione, dall’evasione fiscale ce ne sono di cambiamenti da fare. Altro che la costituzione. I sostenitori di questa riforma credono che per far funzionare le istituzioni serva cambiarle, quando invece il problema è nella qualità della classe politica che le occupa. Qualità che è sempre più scarsa.
Per questi motivi, voterò NO.
(Non ho parlato del merito perché sarebbe un discorso troppo lungo, se però qualcuno vuole parlarne resto a disposizione).

sabato 19 novembre 2016

Il paradosso del Referendum

Come avviene spesso in Italia, visto il nostro modo di far le cose (all'italiana, nel senso peggiore del termine), questo referendum contiene un enorme paradosso, rispetto alle posizioni assunte dal Pd renziano e dal Movimento 5 Stelle. Infatti, l'uno vota no ma gli conviene vinca il sì e l'altro viceversa.

Renzi vota sì e ci mancherebbe, visto che il referendum l'ha voluto e promosso lui in persona. Tuttavia, se dovesse vincere il sì, potrà rimanere al governo l'anno e i pochi mesi da qui alla fine della legislatura, ma quando arriveranno le nuove elezioni, il suo tempo sarà finito. Se passa il referendum infatti, la legge elettorale dell'Italicum non verrà modificata (ci sono accordi su eventuali modifiche che però penso non porteranno a nulla*). Ciò significa che il partito che arriva primo alle prossime elezioni, conquista la maggioranza in parlamento. E quel partito sarà quello di Grillo, vista l'aria che tira in Italia e nel mondo. Per questo ai 5 stelle conviene vinca il sì.

A Renzi invece gioverebbe una vittoria del no perché, sebbene nell'immediato sarebbe costretto a dimettersi, in futuro potrebbe essere rimesso in gioco da uno scenario di instabilità politica. Infatti, se il referendum non passa, avremo due leggi elettorali diverse per le due camere. Sia nel caso in cui le cose rimangano così, sia nel caso in cui la corte costituzionale o il parlamento introducano delle modifiche, il nuovo sistema elettorale non sarà mai come l'Italicum, ergo il risultato delle prossime elezioni saranno due camere senza maggioranza, costrette di nuovo alle larghe intese come oggi. Una figura come Letta potrebbe riuscire a formare un governo ma sappiamo come è andata a finire. Chissà se in un caos del genere Renzi non potrà essere richiamato a salvare le sorti del paese.

*L'Italicum non sarà modificato per due motivi. 1) Trovare una maggioranza parlamentare per cambiare la legge elettorale è difficilissimo, lo abbiamo visto in questi anni. 2) Renzi si terrà stretto l'Italicum convinto che con esso possa vincere anche le elezioni (forte del risultato referendario) e ottenere una maggioranza parlamentare tutta sua.

venerdì 14 ottobre 2016

Le elezioni americane



C'è chi dice, con una provocazione, che alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti dovrebbero poter votare tutti i cittadini del mondo. Questo perché le decisioni che prende il presidente della maggiore superpotenza economica e politica non possono che influenzare il resto del globo. Vale ancora di più quest'anno, dato che i candidati hanno visioni del mondo radicalmente diverse.

Il candidato repubblicano

Come sapete, la politica americana è monopolizzata da due grandi partiti, il partito repubblicano e quello democratico. Questi due partiti, nei mesi precedenti alle elezioni, organizzano delle primarie regolate per legge per scegliere i loro candidati alla Casa Bianca. In questa occasione, le primarie repubblicane sono state molto partecipate. C’era Jeb Bush, figlio e fratello di due ex presidenti; c’era Marco Rubio, il candidato di origine latino-americana; c’era Ted Cruz, un senatore su posizioni molto conservatrici e c’era Donald Trump, che a sorpresa ha stravinto la corsa repubblicana. Ma chi è Donald Trump?

Donald Trump è un imprenditore immobiliare celebre per i suoi hotel, casinò e grattacieli sparsi per l’America, come la Trump Tower a Manhattan dove ha presentato la sua candidatura. È diventato conosciuto al grande pubblico anche per essere l’organizzatore di Miss Usa e Miss Universo e il protagonista del reality show The Apprentice, dove ricopre il ruolo del giudice esigente e severo di alcuni aspiranti imprenditori. Inoltre, ha fatto numerose apparizioni sia nel cinema che in televisione. Di Trump si devono menzionare anche alcune grane con la giustizia e diverse bancherotte, oltre ad alcune recenti indagini sui finanziamenti della fondazione benefica intitolata a suo nome, che sarebbero stati usati per scopi personali e per pagare un procuratore al fine di far chiudere un’indagine a suo carico.

La candidatura di Donald Trump è stata inizialmente presa poco sul serio, sia per il personaggio, sia perché altre volte aveva detto di voler correre per la Casa Bianca per poi ritirarsi. Ma presto si è capito che non stava affatto scherzando. Fin da subito ha attirato le attenzioni dei media per le sue posizioni estremiste sull’immigrazione, le tasse e il terrorismo, in base alle quali viene spesso definito un populista. Ripetendo lo slogan “make America great again” (“fare l’America di nuovo grande”) ha promesso di costruire un muro lungo la frontiera sud e di farlo pagare al Messico, ha chiamato i messicani stupratori, ha detto di voler cacciare tutte le persone di religione islamica dal paese, si è preso gioco di un giornalista disabile, ha insultato la famiglia di un soldato morto in guerra e ha detto che Obama è il fondatore dell’Isis. Ciononostante, i suoi consensi non hanno fatto che aumentare grazie alle sue promesse di combattere l’immigrazione, usare le maniere forti contro il terrorismo e cambiare i trattati sul libero scambio, per ridare ai lavoratori americani le occupazioni perse con la globalizzazione.

Insomma, la sua è una figura controversa, che una buona parte della popolazione vede in modo sfavorevole e divide il suo stesso partito. Tuttavia, è riuscito a raccogliere molti sostenitori essendosi presentato come un candidato anti-establishment e portatore di cambiamento, l’unico a dire le cose come stanno e a battersi contro il politicamente corretto. Le fasce demografiche fra cui Trump proprio non riesce a sfondare sono quelle dei neri e dei latino-americani e anche fra le donne e i giovani fatica ad affermarsi. Il suo bacino di voti è composto prevalentemente dai maschi bianchi della classe lavoratrice, che negli ultimi anni hanno perso il lavoro o si sono impoveriti a causa, secondo loro, della globalizzazione e dell'immigrazione.

La candidata democratica

Dall’altra parte, le primarie democratiche sono state invece una corsa a due e molto meno scontata. A sfidare Hillary Clinton si è fatto avanti un anonimo senatore ultrasettantenne che si definisce addirittura socialista, praticamente un tabù negli Stati Uniti. Ma spiegando di definirsi così per le sue posizioni a favore di una democrazia di tipo scandinavo, con uno stato sociale avanzato, l’università gratuita e la sanità per tutti, è riuscito a riscuotere l’entusiasmo di molti elettori, specie di giovane età. Bernie Sanders – questo il suo nome – si è proposto come un candidato di rinnovamento, impegnato a combattere contro lo strapotere di Wall Street e contro le disuguaglianze economiche. Dopo aver ottenuto molti più voti di quanti gli osservatori avevano previsto, ha però poi dovuto ammettere la sconfitta per mano dell’avversaria, Hillary Clinton, la prima donna candidata alla Casa Bianca dai due maggiori partiti americani.

Hillary Rodham Clinton nasce nel 1947 a Chicago in una famiglia di tendenze conservatrici. Compie studi in scienze politiche e in legge e si interessa di politica fin dagli anni dell’università a Yale, dove incontra il futuro marito Bill. Alterna il lavoro da avvocato impegnato nel sociale con l’attività politica portata avanti insieme al marito, che diventa prima governatore dello stato dell’Arkansas e poi presidente degli Stati Uniti nel 1993. Da First Lady, Hillary Clinton svolge un ruolo molto importante nel supportare l’attività del consorte e, quando lui conclude il suo mandato, si candida e conquista il seggio da senatore per lo stato di New York. Nel 2008 si presenta alle primarie democratiche ma perde contro Barack Obama, di cui diventa poi segretario di stato, cioè l’equivalente americano del nostro ministro degli esteri.

In questa veste, è coinvolta nei due principali scandali che oggi le vengono rinfacciati dai repubblicani. Il primo è l’attacco all’ambasciata americana a Bengazi in Libia nel 2012, finito con due morti tra cui l’ambasciatore Usa, per cui viene accusata di non aver garantito le necessarie misure di sicurezza. Il secondo è lo scandalo, scoppiato più recentemente, delle e-mail. In questo caso, la Clinton è biasimata per aver usato un account di posta elettronica privato per il lavoro, comprese le comunicazioni top segret. Nonostante ciò fosse legale, quando gli è stato chiesto di consegnare le mail per poterle archiviare come da prassi, lei ha detto di avere anche la posta personale su quell’account così, prima di consegnare il suo contenuto, ha eliminato circa la metà delle mail.

Benché questi non siano esattamente scandali che fanno perdere un’elezione, specie se confrontati con quelli dell’avversario, hanno intaccato l’immagine che la Clinton tenta di dare di sé, come di una candidata competente e affidabile. Inoltre, le reticenze e in certi casi le bugie che hanno accompagnato questi episodi hanno rafforzato la convinzione di una parte dell’opinione pubblica americana che la Clinton sia una persona calcolatrice, disposta a mentire e a cambiare le sue idee a seconda della convenienza. I decenni che ha passato sotto i riflettori hanno inoltre contribuito a logorare la sua immagine e a farla apparire agli occhi degli elettori come una rappresentante dell’establishment e dei poteri forti, anche a causa della rete di relazioni costruita con la Fondazione Clinton. Inoltre, come ha ammesso lei stessa, non è esattamente un animale politico, in pubblico appare fredda e distaccata e questo le impedisce di far breccia nei cuori di molti potenziali elettori.

La corsa alla Casa Bianca

Se Donald Trump sembra un candidato troppo estremista per poter vincere, la sua debolezza è compensata da quella di Hillary Clinton. Secondo un recente sondaggio del Washington Post, entrambi i contendenti attirano un giudizio negativo da parte del 60% della popolazione. E questa è l’unica cosa che hanno in comune. In un sistema politico dove di solito i candidati, essendo soltanto due, tendono a convergere al centro, questa volta si scontrano due personaggi molto diversi e due visioni del mondo radicalmente contrapposte. Da una parte abbiamo una figura affidabile e competente e una potenziale prima donna presidente, ma che viene percepita come l'espressione di una classe dirigente che non riesce a risolvere i problemi. Dall'altra, troviamo un uomo che dice di battersi contro un sistema truccato e promette di fare l'America di nuovo grande, ma che usa toni violenti, non rispetta le minoranze e apprezza leader autoritari come il russo Putin.

Per fare delle previsioni sull'esito di queste elezioni, bisogna ricordare che il voto per la presidenza degli Stati Uniti non è diretto, ma avviene su base statale. Ciascuno dei 50 stati americani elegge i propri grandi elettori, il cui numero è calcolato in proporzione alla loro popolazione. Saranno poi loro a votare per il presidente secondo l'indicazione di voto data dallo stato di appartenenza. Nella quasi totalità dei casi, il candidato che vince in uno stato si assicura così tutti i suoi grandi elettori. Il totale è 538 grandi elettori, ne servono quindi 270 per vincere.

Bisogna anche sapere che un grande numero di stati vota sempre per l'uno o per l'altro partito. Per esempio, la California e gli stati del nord-est sono tradizionalmente democratici, mentre gli stati del profondo sud come il Texas votano repubblicano. Ci sono poi i “swing states”, cioè gli stati in bilico, quelli che di fatto decidono chi vince e chi perde. Sono una decina e alcuni cambiano nel corso del tempo. Quelli da tenere d'occhio quest'anno, perché sono tradizionalmente in bilico e perché regalano al vincitore un consistente numero di grandi elettori, sono la Florida, l'Ohio e la Pennsylvania.

Ma l'8 novembre non sarà eletto soltanto il 45° presidente degli Stati Uniti. I cittadini americani saranno chiamati a scegliere anche i membri della camera e di una parte del senato. È importante ricordarlo perché in America il presidente può dover convivere con un congresso di un diverso colore politico. Tutt'oggi il democratico Obama deve collaborare con un congresso dove entrambe le camere sono a maggioranza repubblicana. Dopo l'8 novembre, secondo le previsioni, la camera rimarrà saldamente in mano ai repubblicani, mentre i democratici hanno qualche chance di conquistare il senato.

lunedì 22 agosto 2016

Il Referendum Costituzionale



Il prossimo autunno tutti i cittadini italiani maggiorenni saranno chiamati alle urne per dire la loro sulla riforma della Costituzione fatta dal governo Renzi. Il parlamento ha dato il suo via libera lo scorso aprile, ma non avendo raggiunto i due terzi dei voti come previsto in questi casi, l’ultima parola spetta ai cittadini.
La Costituzione è la legge fondamentale dello stato, ciò significa che non solo deve essere rispettata da tutti i cittadini, ma anche che tutte le altre leggi che vengono quotidianamente approvate dal parlamento non possono essere in contrasto con essa.
La riforma di Boschi e Renzi modifica solo la seconda parte della carta costituzionale, cioè quella che tratta l’organizzazione dello stato, mentre la prima parte, sui diritti e doveri dei cittadini, rimane praticamente intatta.
Attenzione perché in questo caso, a differenza di quanto previsto per i referendum abrogativi, non c’è quorum, quindi il risultato del voto sarà valido in ogni caso, che voti il 10 oppure il 90% degli aventi diritto.
Vediamo ora cosa prevede la riforma e quali sono le ragioni dei favorevoli e dei contrari.

CAPITOLO 1 - LA RIFORMA

Il senato. Il cambiamento più importante che viene apportato alla costituzione riguarda il Senato. Oggi in Italia vige il cosiddetto bicameralismo perfetto o paritario. Ciò significa che la Camera e il Senato hanno gli stessi poteri e le stesse funzioni. La riforma prevede invece che il Senato rappresenti le istituzioni locali e abbia una composizione e delle funzioni diverse da quelle di oggi. Innanzitutto, il nuovo senato sarà composto da 100 membri (rispetto ai 315 attuali): 74 consiglieri regionali, scelti in base alla loro elezioni, 21 sindaci selezionati sempre dalle regioni e 5 personalità nominate dal presidente della repubblica “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. I rappresentanti delle regioni e i sindaci rimarranno in carica per la durata dei consigli regionali che li hanno eletti, mentre il mandato dei senatori scelti dal capo dello stato durerà 7 anni. Un’importante novità è che i senatori non riceveranno alcuna indennità, se non quella percepita come consiglieri regionali o come sindaci.

Anche il ruolo del Senato nel processo legislativo cambia radicalmente. Oggi, tutte le proposte di legge devono essere discusse e votate da entrambe le camere e, se una apporta delle modifiche, il testo deve tornare all’altra camera per essere approvato nello stessa identica formulazione. Questo procedimento è conosciuto con il nome di “navetta”. La riforma prevede che la navetta rimanga soltanto per le leggi che modificano o attuano la Costituzione e per quelle legate ai rapporti con gli enti locali o l’Unione Europea. Per tutte le altre, il potere decisionale spetterà alla sola Camera dei deputati, mentre il Senato svolgerà un ruolo principalmente consultivo. In che modo? Per ogni nuova legge approvata dalla Camera, un terzo dei senatori potrà chiedere che sia esaminata anche dal senato, che avrà 30 giorni per farlo. E se decide di proporre delle modifiche, il testo torna alla Camera per il voto definitivo.
Ci sono in realtà dei casi particolari: ad esempio, per le materie di interesse regionale, la legge viene trasmessa automaticamente al senato e, se esso propone delle modifiche a maggioranza dei suoi componenti, la Camera le può respingere solo con lo stesso tipo di maggioranza. Ci sono poi la legge di bilancio, i cui termini per la discussione in senato si riducono a 15 giorni, e altre materie la cui competenza è esclusivamente della Camera.

Il governo. Un’altra parte della riforma riguarda il governo. A partire dall’atto che ne sancisce l’insediamento, cioè la fiducia da parte del parlamento, che non sarà più data da entrambe le camere ma soltanto dalla Camera dei deputati. Inoltre, la riforma prevede alcuni limiti ai decreti legge, cioè quegli atti che l’esecutivo può emanare in casi di urgenza e hanno forza di legge, anche se devono essere poi confermati dal parlamento. D’altro canto però viene prevista una corsia preferenziale in parlamento per i disegni di legge che il governo giudica urgenti. La Camera avrà 5 giorni per dire se condivide l’urgenza e poi altri 70 giorni per deliberare.

I rapporti stato-regioni. La riforma del governo Renzi mette mano anche alla distribuzione dei poteri fra stato e regioni, il famoso Titolo V della Costituzione, che è già stato modificato con un’altra riforma e un altro referendum costituzionale nel 2001. In quella occasione, si conferì alle regioni il potere di legiferare in molti settori, stabilendo quali materie fossero di competenza statale, su quali vi fosse una competenza concorrente e lasciando tutte le altre materie alle regioni. La competenza concorrente, in base alla quale allo stato spetta stabilire i principi generali mentre poi la regione deve disciplinare in modo più specifico, ha sempre creato dei conflitti fra lo stato e le regioni su chi dovesse decidere cosa. Così la riforma prova a risolvere questo problema, abolendo la competenza concorrente e distribuendo le diverse materie fra l’uno e le altre. Inoltre, lo stato si riprende alcune competenze, come quelle sull’energia, sul commercio con l’estero e sulle grandi infrastrutture, mentre alle regioni rimangono principalmente la sanità, la pianificazione del proprio territorio e lo sviluppo economico locale. Viene inoltre introdotta una clausola per la quale lo stato può riservarsi di decidere su materie di competenza regionale se c’è in ballo l’interesse nazionale. Infine, viene stabilito un tetto agli emolumenti del presidente e dei consiglieri regionali pari allo stipendio del sindaco del capoluogo, oltre a venire vietati i rimborsi spese ai gruppi consiliari, il cui uso spregiudicato degli ultimi anni ha attirato le attenzioni della magistratura.

Gli altri punti. Vediamo in breve altri punti della riforma.
- Vengono apportati dei cambiamenti agli strumenti di democrazia diretta. Le leggi di iniziativa popolare, per essere presentate, avranno bisogno di 150 mila firme invece delle attuali 50 mila. I referendum abrogativi, se saranno promossi con 800 mila firme invece delle solite 500 mila, potranno godere di un quorum più basso di quello normale: non più il 50% degli aventi diritto, ma il 50% dei votanti alle ultime elezioni politiche. Inoltre si fa riferimento a referendum propositivi e consultivi, che però dovranno essere disciplinati con un’ulteriore legge costituzionale.
- Viene in parte cambiato il modo in cui si elegge il presidente della Repubblica. Fino ad ora Camera e Senato si riunivano in seduta comune insieme a 58 delegati regionali. Con la riforma, le regioni non avrebbero più i loro delegati, in quanto sarebbero rappresentate dagli stessi senatori. Cambia anche la maggioranza richiesta per l’elezione. Fino ad oggi, erano richiesti i 2/3 dei componenti per i primi 3 scrutini e la metà più uno dei componenti per i successivi. Con la riforma rimangono i 2/3 dei componenti fino al terzo scrutinio, che poi diventano 3/5 dei componenti dal 4° al 6° e 3/5 dei votanti dal 7° in poi.
- Viene previsto un giudizio preventivo della corte costituzionale sulla legge elettorale prima della sua promulgazione, se lo richiedono un quarto dei deputati o un terzo dei senatori.
- Vengono aboliti il Cnel e le province. Il Cnel è un organo consultivo composto da rappresentanti delle parti sociali ed esperti che ha il potere, peraltro mai esercitato, di iniziativa legislativa. Questo organismo fu creato insieme alla costituzione, appena dopo la guerra, per riprendere un po’ il ruolo della Camera dei fasci e delle corporazioni. Tuttavia, non ha mai svolto un ruolo effettivo e quindi da molto tempo si voleva abolirlo. Per quanto riguarda le province, di fatto non si votano più da alcuni anni e ora le si abolisce del tutto.

CAPITOLO 2 - PRO E CONTRO

La campagna per il referendum di questo autunno è condotta dai comitati per il SÌ e quelli per il NO.
A favore della riforma, si sono schierati naturalmente i partiti che l’hanno votata in parlamento: il Partito Democratico, Ncd e Ala di Verdini. La minoranza del Pd è però poco convinta, perché avrebbe preferito che i senatori fossero eletti direttamente dai cittadini. Ai partiti si sono aggiunti 184 accademici che hanno firmato un documento a sostegno della riforma.
Sul fronte del no, troviamo invece i partiti di opposizione: Movimento 5 Stelle, Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana. Un gruppo di 56 accademici, in questo caso tutti costituzionalisti tra cui diversi ex giudici della corte costituzionale, hanno sottoscritto una lettera per esprimere i motivi del loro dissenso.

Le ragioni di merito. Ma veniamo alle ragioni sostenute dalle due parti, iniziando dal merito della riforma. Tra i favorevoli, si sostiene che la carta costituzionale abbia bisogno di un aggiornamento, fermi restando i principi di base, che rimangono immutati. È da 30 anni che si creano commissioni parlamentari con questo intento, le quali si pongono come priorità proprio quelle di superare il bicameralismo paritario, con il meccanismo della navetta, e di aggiustare il Titolo V sui rapporti fra stato e regioni.
Dalla parte dei contrari, molti condividono la necessità di superare il bicameralismo paritario ma non in questo modo. Infatti, si sostiene che il progetto del governo rischi di complicare il procedimento legislativo invece di semplificarlo, proprio per le numerose modalità in cui può svolgersi, con tutte le eccezioni e i casi particolari che sono stati previsti. Inoltre, si teme che il nuovo senato non riuscirà a perseguire il suo principale obiettivo, cioè quello di rappresentare efficacemente le regioni, a causa di come è disegnato. Altri affermano che i senatori avranno ancora troppi poteri per essere rappresentanti non eletti direttamente dai cittadini.
Il fronte del sì respinge queste argomentazioni, aggiungendo che la riforma permetterà di approvare le leggi più rapidamente e di risparmiare alcune centinaia di milioni di euro dall’eliminazione dell’indennità dei senatori (cioè la parte principale del loro stipendio), dall’abolizione del Cnel e delle province, dal tetto ai compensi dei consiglieri regionali e dalla soppressione dei finanziamenti ai gruppi consiliari.
I contrari alla riforma ribattono che l’Italia ha già più leggi di molti altri paesi europei e che i risparmi saranno inferiori, nell’ordine di poche decine di milioni, un euro a cittadino o poco più, ed inoltre quando si parla di istituzioni che fanno funzionare la democrazia, non si dovrebbe ragionare in termini di costi monetari.

Le ragioni di metodo. Venendo al metodo con cui la riforma è stata approvata, i contrari affermano che il governo ha sbagliato a farsi promotore del cambiamento della Costituzione, dato che questo è un compito tradizionalmente riservato al parlamento. Inoltre, la riforma è stata approvata dalla sola maggioranza di governo, senza accordi con le opposizioni.
I favorevoli rispondono che non è scritto da nessuna parte che il governo non possa occuparsi della Costituzione ed inoltre si è provato a coinvolgere le opposizioni ma queste hanno fatto delle barricate. In particolare, Forza Italia aveva votato la prima versione della riforma, salvo poi cambiare idea per motivi non legati al suo contenuto.
Dal fronte del no, una delle principali critiche riguarda la trasformazione del referendum in un plebiscito sulla figura di Matteo Renzi, dato che il premier ha pubblicamente annunciato che si dimetterà in caso di sconfitta.

Le ragioni politiche. Ci sono infine delle ragioni politiche che dividono i due fronti. Dalle file del no, si alzano alcune voci che evocano addirittura un rischio di autoritarismo. Certo, non tutti i contrari alla riforma condividono questo allarme, però viene comunque riconosciuto un danno all’equilibrio dei poteri, generato dall’effetto combinato di questa riforma e delle nuova legge elettorale. Infatti, il cosiddetto Italicum darà il controllo della Camera all’unico partito vincitore delle elezioni, anche se questo avrà ottenuto solo il 20-25% dei voti al primo turno. In più, con la riforma costituzionale, non ci sarà più nemmeno un senato in grado di garantire un giusto contrappeso. Il risultato, secondo il fronte del no, sarà un accentramento dei poteri nelle mani del governo.
I sostenitori del sì ribadiscono che il referendum è sulla riforma costituzionale e non su quella elettorale e comunque, a loro avviso, parlare di rischio di autoritarismo è assurdo, poiché nelle democrazie moderne esistono tutta una serie di contrappesi, come il presidente della repubblica e la corte costituzionale.

CONCLUSIONE

Come abbiamo detto, la Costituzione è la legge fondamentale di uno stato. Contiene i diritti e i doveri dei cittadini e stabilisce quali istituzioni servono per far funzionare la democrazia. Per questo, il referendum è così importante. E per questo, è così importante andare a votare.

venerdì 24 giugno 2016

Forse è meglio così. E ora? - Riflessione sulla Brexit

Forse è stato meglio così. Il Regno Unito non è mai stato interessato a far parte di un'unione politica ma solo di un mercato unico. Ora lo si ammetta nel mercato comune europeo come non membro Ue (alla stregua di Islanda, Liechtenstein e Norvegia) e si chiuda la questione in tempi rapidi.

Per quanto riguarda l'Unione Europea, adesso può integrarsi maggiormente perseguendo l'obiettivo previsto dai trattati della "ever closer union" (un'unione sempre più stretta), in modo da funzionare davvero come dovrebbe (e soprattutto far funzionare l'unione monetaria che, così com'è, sta facendo parecchi danni). Da europeista, mi auguro di cuore che questo accada, ma se mi guardo attorno non posso che essere pessimista.

Infatti, l'avversione verso l'Ue non è una prerogativa dei britannici. Molti altri paesi europei, Italia compresa, sono divisi circa a metà tra chi vuole rimanere e chi vuole lasciare l'Ue. I motivi per cui molti cittadini inglesi hanno votato per il leave sono gli stessi che animano gli euroscettici degli altri paesi. Il principale di questi riguarda gli effetti della globalizzazione. Parlo dell'immigrazione, il cui aumento repentino ha spaventato larghe fette della popolazione, che si sono ritrovate improvvisamente in una società multiculturale  che non sono riuscite a comprendere. Ma parlo anche della globalizzazione economica. I trattati di libero scambio, così come l'immigrazione, sono una cosa positiva per l'economia nel suo complesso, tutti gli studi concordano a riguardo. Il problema è che entrambi questi fenomeni danneggiano alcuni strati sociali, i più deboli, i più poveri, i meno istruiti. I cosiddetti "sconfitti della globalizzazione". Sono persone che perdono il lavoro perché se ne va in Cina o in India e che vedono i loro figli o nipoti senza prospettive. Per questo se la prendono con la classe dirigente, con l'élite, che non è riuscita a proteggerle. E in questa categoria ci finisce pure l'Unione Europea, vista come la quintessenza della tecnocrazia, lontana dal popolo, che impone restrizioni economiche e regolamenti assurdi. Se l'Ue vuole salvarsi, è arrivato il momento per i paesi europei di unirsi veramente e combattere insieme le diseguaglianze e le incertezze create dal mondo globalizzato di oggi.

sabato 4 giugno 2016

Guida alle elezioni amministrative 2016


Originariamente pubblicato su Muovere Le Idee.

Domenica 5 giugno, dalle 7 alle 23 (dalle 8 alle 22 in Friuli), saranno aperti i seggi elettorali in circa 1350 comuni per il rinnovo dei consigli comunali e l’elezione dei nuovi sindaci. Gli eventuali ballottaggi si terranno due settimane dopo, domenica 19 giugno. Saranno chiamati alle urne 13 milioni di italiani. Si voterà anche nella capitale, Roma, e in molti capoluoghi importanti come MilanoNapoliTorino, Cagliari, Trieste e a Bolzano (dove in realtà si è già votato, essendo in una regione a statuto speciale). Il Sole 24 Ore ha calcolato che complessivamente i candidati saranno 77 mila, con il record di 41 liste a Napoli e un budget complessivo che gli eletti dovranno gestire di 55 miliardi di euro. In ogni comune possono votare tutti i residenti che siano cittadini italiani o cittadini di un altro stato dell’Unione Europea (questi ultimi solo se ne hanno fatto domanda a tempo debito).

COME SI VOTA
Attenzione! Queste regole valgono per le regioni a statuto ordinario. Ci potrebbero essere alcune differenze in quelle a statuto speciale.
Comuni oltre i 15.000 abitanti (10.000 in Sicilia)
Si vota su un’unica scheda, dove saranno elencati tutti i candidati sindaco e, a fianco di ciascuno, le liste che lo supportano. È possibile votare in tre modi:

  • tracciando un segno solo sul nome del candidato sindaco: in questo modo, si vota soltanto lui e nessuna delle liste collegate;
  • tracciando un segno solo sul simbolo di una lista: in questo modo, si vota sia la lista che il candidato sindaco a cui è collegata;
  • tracciando un segno sia su una lista che su un candidato sindaco non collegato ad essa (è il cosiddetto “voto disgiunto“).

Se si traccia un segno su una lista è possibile esprimere una o due preferenze scrivendo il cognome del candidato consigliere di cui si vuole agevolare l’elezione. Se però le preferenze che si vogliono assegnare sono due, devono essere di sesso diverso.
Viene eletto sindaco il candidato che raggiunge il 50% più uno dei voti validi. Se questa soglia non viene raggiunta, si terrà un secondo turno di ballottaggio, a cui accederanno i due candidati che hanno ottenuto più voti nel primo turno e da cui uscirà il vincitore. Tra i due turni, le liste il cui candidato sindaco è stato estromesso dalla corsa possono decidere di apparentarsi ad uno dei due candidati che si sfideranno al ballottaggio.
I seggi in consiglio comunale vengono assegnati in modo proporzionale (con il medoto d’Hondt). Alle liste collegate al candidato sindaco vincente viene assegnato almeno il 60% dei seggi (con un turno solo, c’è la condizione che esse devono aver raggiunto almeno il 40% dei voti validi).

Comuni sotto i 15.000 abitanti
Si vota su un’unica scheda, dove saranno elencati tutti i candidati sindaco e, a fianco di ciascuno, la lista che lo supporta. Si vota tracciando un segno sul candidato sindaco che si favorisce. In questo modo, verrà votata anche la lista che lo accompagna. È possibile esprimere una preferenza, scrivendo il candidato consigliere di cui si vuole agevolare l’elezione. Nei comuni sopra i 5.000 abitanti, le preferenze possono essere due, purché di sesso diverso.
Viene eletto il candidato sindaco che ha ottenuto il maggior numero di voti (è previsto il ballottaggio solo in caso di parità fra le liste più votate). Alla lista vincitrice spettano i due terzi dei seggi in consiglio comunale, mentre i posti restanti vengono distribuiti in modo proporzionale fra le altre formazioni.
Se in un comune si dovesse presentare una lista soltanto, le elezioni saranno valide solo nel caso che si rechino ai seggi il 50% più uno degli aventi diritto al voto (e che almeno la maggioranza di essi esprima un voto valido). In caso contrario, il comune verrà commissariato e si tornerà alle urne nel successivo turno elettorale.

In generale, queste elezioni comunali segnano una certa discontinuità rispetto al passato. Le tradizionali coalizioni di centrodestra e centrosinistra, favorite fino ad oggi anche dal sistema elettorale previsto per i comuni, sembrano ora in via di smantellamento. A sinistra per esempio, in molte città di medie e grandi dimensioni, il Partito Democratico e i partiti più a sinistra correranno separati. Questo è ancora più vero per il centrodestra che, sebbene a Milano si sia presentato unito, in altri posti è spaccato a metà, con Forza Italia da una parte e Lega Nord e Fratelli d’Italia dall’altra (come succede a Roma).
Solitamente le elezioni amministrative hanno conseguenze politiche anche a livello di governo nazionale. Da sempre vengono considerate un test sull’esecutivo. Tuttavia, questa volta, il premier Renzi sembra aver riposto maggiore attenzione sul referendum sulla riforma costituzionale del prossimo autunno, attirando le critiche dell’opposizione secondo cui sta mettendo le mani avanti prevedendo una possibile sconfitta.

LE ELEZIONI NELLE CITTÀ PIÙ IMPORTANTI
Le elezioni a Roma
La capitale sta uscendo da un periodo difficile, tra gli scandali di Mafia Capitale e il commissariamento dovuto alle dimissioni di Ignazio Marino. In questo quadro, è cominciata una campagna elettorale tutto tranne che noiosa. I sondaggi danno in vantaggio la candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi, avvocatessa scelta con le comunarie online, che dovrebbe quasi sicuramente arrivare al ballottaggio. Dietro di lei il candidato del Partito Democratico Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera ed ex radicale, che ha stravinto le primarie a marzo. Sinistra Italiana ed altri partiti della sinistra radicale corrono invece da soli, sostenendo il deputato fuoriuscito da alcuni mesi dal Pd, Stefano Fassina. Nel centrodestra invece il processo che ha portato alle elezioni non è stato così liscio. Dopo che fra Forza Italia, Lega Nord (che a Roma si chiama Noi con Salvini) e Fratelli d’Italia i tentativi di trovare una candidatura comune sono falliti, il partito di Berlusconi ha dapprima scelto di sostenere l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, per poi convergere sul candidato centrista Alfio Marchini, sostenuto anche dal Nuovo Centro Destra. Lega Nord e Fratelli d’Italia correranno insieme, portando avanti la candidatura di Giorgia Meloni. I sondaggi pubblicati prima del blackout imposto dalla legge vedono Giachetti, Marchini e Meloni giocarsi il secondo posto al primo turno.

Le elezioni a Milano
Nella capitale economica del paese, la situazione è più chiara e, in controtendenza rispetto a Roma e ad altre città, centrodestra e centrosinistra corrono uniti. A destra, Forza Italia, Ncd, Lega e Fratelli d’Italia sostengono Stefano Parisi, ex manager pubblico ed ex amministratore delegato di Fastweb, che nei sondaggi è appaiato al candidato di Pd e Sinistra Italiana, Giuseppe Sala, ex commissario Expo che ha vinto le primarie dello scorso febbraio. Alla sua sinistra, trova la lista Milano in Comune, composta tra gli altri da Rifondazione e Possibile, che porta avanti la candidatura di Basilio Rizzo. Il Movimento 5 Stelle, che aveva organizzato delle primarie per decidere il proprio candidato, ha inizialmente scelto Patrizia Bedori, alla cui rinuncia è subentrato Gianluca Corrado. Inizialmente aveva avanzato la propria candidatura anche l’ex amministratore delegato di Banca Intesa Corrado Passera, che però si è ritirato ed è finito per appoggiare Parisi.

Nelle altre città
Napoli i sondaggi danno in largo vantaggio il sindaco uscente Luigi De Magistris, ex magistrato e parlamentare europeo sostenuto da liste civiche, Sinistra Italiana e Possibile. Lo sfidano da destra il candidato di Forza Italia Gianni Lettieri e quello di Lega e Fratelli d’Italia Marcello Taglialatela e da sinistra la candidata del Pd Valeria Valente. Il Movimento 5 Stelle presenta invece Matteo Brambilla.
In vantaggio a Torino è invece il sindaco uscente del Pd Piero Fassino, la cui principale rivale sarà Chiara Appendino del M5S.
Anche a Bologna si prevede la vittoria del sindaco uscente Pd Virginio Merola, sfidato dalla candidata della Lega (ma appoggiata da tutto il centrodestra) Lucia Bergonzoni.

Link di approfondimento

venerdì 13 maggio 2016

Cosa sono destra e sinistra in politica


Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web. Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del nuovo video.

I concetti di destra e sinistra rappresentano uno dei tormentoni della politica. Questi termini sono molto in voga fra chi la politica la pratica e la segue da vicino. Renzi afferma di essere di sinistra ma molti lo accusano di essere di destra. Salvini viene collocato da molti all’estrema destra. Secondo Grillo, invece, destra e sinistra non hanno più senso di esistere. Una cosa è certa: queste categorie sono cadute un po’ in disuso ultimamente e il leader dei 5 stelle non è l’unico a considerarle inutili. Per capire se questa tesi è corretta, vediamo insieme come destra e sinistra sono nate e quali significati hanno assunto nel tempo.

LA STORIA

L’uso dei concetti di destra e sinistra in politica è cominciato un po’ per caso. Siamo nel 1789, si è appena conclusa la Rivoluzione Francese e vengono inaugurati gli Stati Generali: l’assemblea di nobiltà, clero e Terzo Stato chiamata a condividere il potere col re. Nel momento di entrare nella sala della riunione, con i posti a sedere distribuiti a semicerchio, i presenti si divisero secondo le loro idee politiche: i conservatori e i difensori dell’antico regime si sedettero a destra rispetto al presidente, i rivoluzionari e i radicali a sinistra mentre al centro rimase chi non aveva una posizione precisa.

Da allora, la democrazia ha preso sempre più piede e il suffragio, cioè la parte di popolazione a cui è consentito votare, è stato progressivamente esteso. Nel frattempo, sono nati i partiti, ciascuno dei quali cerca di rappresentare una parte dell’elettorato. Nell’opinione pubblica, infatti, hanno cominciato ad emergere le prime fratture sociali, una caratteristica fondamentale di una società pluralistica. I politologi Lipset e Rokkan hanno individuato diverse divisioni sociopolitiche, che si sono succedute nel tempo per importanza: quella fra il centro e la periferia, fra stato e chiesa, fra città e campagna, fra lavoratori e datori di lavoro. I termini destra e sinistra sono serviti come contenitori concettuali di tutte queste fratture ma hanno avuto particolarmente fortuna con l’ultima: quella fra lavoratori e datori di lavoro. Infatti, da una parte c’erano i partiti di destra, schierati in difesa degli interessi degli imprenditori, e dall’altra i partiti di sinistra, volti a tutelare dipendenti e operai. Tuttavia, questa frattura sociale ha cominciato a perdere importanza già da qualche decennio, a causa dei mutamenti che hanno interessato sia la politica che l’economia.

LA TEORIA

Ma se destra e sinistra hanno assunto diversi significati nel tempo, allora come possiamo distinguerle? Norberto Bobbio, un grande filosofo italiano, ha proposto un modo per farlo. A suo avviso, ciò che in fondo differenzia destra e sinistra è il loro atteggiamento verso le disuguaglianze. Chi è di sinistra ritiene che per una buona convivenza sia più importante ciò che accomuna gli individui, mentre chi è di destra sottolinea l’importanza delle differenze. Inoltre, mentre per la sinistra le disuguaglianze sono perlopiù sociali ed eliminabili, per la destra esse sono create dalla natura e quindi non possono essere evitate. Queste posizioni non sono mai assolute: nessuno ritiene che dovremmo essere uguali in tutto o che non si debba correggere nessuna disuguaglianza, ma questa diversità di vedute si traduce nel supporto di politiche che spingono più da una parte o dall’altra.

Altri studiosi sostengono che destra e sinistra non bastino a rappresentare tutte le idee politiche e che servano altri due termini: libertà e autorità. Mentre alcuni pensano che la destra sia libertaria e la sinistra autoritaria, molti ritengono invece che si tratti di due dimensioni che si intrecciano tra loro: destra e sinistra da una parte e libertà e autorità dall’altra. Lo stesso Bobbio crede che il libertarismo rappresenti la parte moderata sia della destra che della sinistra, mentre l’autoritarimo sia il principio guida delle rispettive fazioni estremiste.

I VALORI

Storicamente, destra e sinistra sono state distinte in base ad una serie di valori, riferiti a vari aspetti della vita e della società, che vanno però interpretati come tendenze generali e non in senso assoluto:
  • rispetto alla religione, la destra è caratterizzata da un forte sentimento religioso, mentre la sinistra è laica (cioè promuove la separazione tra gli affari della fede e quelli dello stato);
  • rispetto all’economia, la destra è più incline a lasciare che sia il mercato a decidere la distribuzione delle risorse economiche, mentre la sinistra è favorevole ad un ruolo più rilevante dello stato;
  • sotto il profilo sociale, la destra è tendenzialmente dalla parte degli imprenditori e dei liberi professionisti, mentre la sinistra sta con i lavoratori dipendenti e gli operai;
  • nei rapporti fra le persone, la destra è più per la gerarchia, lo status e il merito, la sinistra per i rapporti di parità, per la giustizia e l’uguaglianza;
  • nell’atteggiamento verso la vita e nei valori personali, la destra si riconosce nella tradizione e nella conservazione, mentre la sinistra nel progresso e nel cambiamento.

NELLA PRATICA

Ma veniamo al tipo di forze politiche che sono cadute sotto queste etichette nel corso della storia. Nell’Ottocento, i temi su cui si scontrano destra e sinistra sono quelli del suffragio e dell’economia. Da una parte la destra, appoggiata dai ceti più abbienti, cerca di mantenere il voto riservato a chi detiene un certo patrimonio e spinge per la liberalizzazione dei commerci con l’estero. Dall’altra parte, la sinistra tenta di estendere il suffragio, dando maggiore potere alla popolazione più povera, e preme per un maggiore protezionismo dalla concorrenza straniera.
Nella prima parte del Novecento, emergono gli estremismi di destra e sinistra, che condividono un approccio autoritario al potere. Con la rivoluzione d’ottobre del 1917, il partito comunista instaura in Russia un regime che abolisce la proprietà privata e nazionalizza tutte le attività economiche, al fine di dare il potere alla classe lavoratrice, prima sfruttata dai detentori del capitale. Pochi anni più tardi, in paesi come Italia e Germania, salgono al potere regimi fascisti e nazionalsocialisti, che mirano a riaffermare i valori della tradizione e della patria, oltre a diffondere il culto della forza e dell’autorità.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la nascita delle democrazie moderne nell’Europa Occidentale, destra e sinistra rinascono principalmente intorno alla divisione sociale tra imprenditori e operai. A destra si formano i partiti popolari e cristiani, a sinistra quelli socialisti, socialdemocratici e comunisti. In Italia, però, abbiamo una situazione un po’ particolare, con un grande partito di centro, la Democrazia Cristiana, che governa per molti anni da sola con alleati di scarso peso. Alla sua destra c’è il Movimento Sociale, un partito di estrema destra che si richiama all’esperienza fascista. Mentre, alla sua sinistra, troviamo il partito socialista e quello comunista, con quest’ultimo che fa riferimento all’omologo sovietico.
Il panorama politico italiano si trasforma radicalmente all’inizio degli anni Novanta, con la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Da quel momento, due grandi coalizioni di centrodestra e centrosinistra si alterneranno al governo per i successivi vent’anni.
Per citare qualche partito odierno, partendo da sinistra troviamo Sinistra Italiana e il Partito Democratico, a destra abbiamo invece il Nuovo Centro Destra, Forza Italia, la Lega Nord e Fratelli d'Italia. C'è poi il Movimento 5 Stelle che però rifiuta di collocarsi su quest'asse.

CONCLUSIONE

Sebbene destra e sinistra non siano sempre state le stesse nel corso del tempo, i loro rispettivi valori fondamentali sono rimasti immutati. È vero: non è facile capire cosa siano esattamente l’una e l’altra, tuttavia sembrano aver sempre svolto un ruolo fondamentale nell’orientare l’opinione pubblica nello spazio politico. Almeno fino ad oggi. Negli ultimi anni, infatti, sono apparsi nuovi partiti, definiti da molti “populisti” per il loro stile nel far politica, che rifiutano le vecchie etichette di destra e sinistra. Tuttavia, in molti casi, le loro posizioni permettono ancora di classificarli in queste due categorie.

giovedì 7 aprile 2016

Il giornalismo nell'era digitale

Pubblico l'articolo che ho scritto per il concorso "Amazon Scholarship per il Festival Internazionale di Giornalismo a Perugia".

Di recente ho assistito ad una scena che riassume in qualche modo il momento che sta vivendo il mondo del giornalismo. Durante un incontro con delle matricole all’università (classe 1996), un giornalista sulla sessantina, con occhiali rotondi, giacca grigia, cravatta e gilet chiede: “Dove vi informate? Sui giornali o sul web?”. Gli studenti si scambiano occhiate interrogative. “Sul web”, sussurra qualcuno timidamente. “Solo sul web? L’informazione online è gratis e i giornalisti non vengono pagati”. “Ma è più comodo: quando uno è sull’autobus, accende il telefono e consulta le notizie che preferisce”, azzarda una ragazza. Qualcuno, qualche fila dietro, aggiunge: “tramite Facebook, scopro cosa leggono i miei amici e posso condividere le stesse letture”.

È proprio la frattura generazionale che traspare da questo episodio a costituire il nocciolo del problema nella transizione del giornalismo nell’era di Internet. Da una parte, una generazione che rimane ancorata al vecchio giornale di carta, dal momento che è nata e cresciuta con quello, come oggetto e come immaginario. Dall’altra, una nuova generazione di nativi digitali, che intendono fruire dell’informazione in modi nuovi, sia nella forma (il web al posto della carta), sia nei contenuti. Ciò che rende tutto più difficile però è l’apparente incapacità del primo gruppo, che costituisce la classe dirigente del giornalismo italiano e non solo, a comprendere le necessità del secondo e a saperle soddisfare.

È opinione diffusa che chi si vuole tenere informato per bene possa farlo solo attraverso i tradizionali quotidiani cartacei. Ma ha ancora senso sostenere una tesi del genere nel 2016? I giornali di carta sono un prodotto caratteristico del XX secolo: nell’epoca pre-Internet l’unico modo per diffondere le notizie era quello di stamparle su parecchi fogli di carta e fargli percorrere decine o addirittura centinaia di chilometri affinché approdassero nelle edicole in tempo utile. Il lettore poi acquistava giornali di molte pagine per poi leggerne solo alcune, quelle con le notizie a cui era interessato. Oggi, tramite il web, possiamo accedere ad un maggior numero di contenuti con un semplice click, senza dovere sradicare alberi e senza muoverci da casa, potendo scegliere tra diversi punti di vista e diversi livelli di approfondimento. Perché un nativo digitare dovrebbe rinunciare a tutto questo?

Ma se i vecchi media non riescono a sfondare tra i più giovani non è solo una questione di forma, ma anche di sostanza. I temi che vengono trattati maggiormente non attirano più l’interesse dei lettori come facevano un tempo. Prendiamo la politica interna: ogni giorno fiumi di inchiostro vengono spesi per la cronaca parlamentare, i retroscena, i pastoni. Ma oggi “la politica non serve a niente”, come afferma Stefano Feltri nel titolo del suo ultimo libro, dato che il suo ruolo è sempre più eroso da altri attori come la tecnocrazia, le organizzazioni internazionali, i big della Rete, e quindi esercita sempre meno attrattiva. Anche altri contenuti ai quali i media tradizionali dedicano ancora molta attenzione, come le vicende interne alla Chiesa, la cronaca nera, un certo modo di parlare della cultura, non vedono condiviso lo stesso interesse da parte delle schiere di nuovi lettori. I nativi digitali si appassionano di più per gli esteri (avendo degli orizzonti che vanno ben al di là del vecchio stato nazione), per i temi sociali, per la tecnologia, per le nuove forme di espressione culturale. Inoltre, ai nuovi utenti dell’informazione non basta più seguire giorno dopo giorno l’accavallarsi di episodi e di prese di posizione sui vari temi; cercano invece un approccio più sistemico, di tipo problem solving, vogliono che venga presentato loro il problema (“spiegato bene”, come dicono al Post, e “senza giri di parole”, come fa The Post Internazionale), con ciò che c’è da sapere, compresi i diversi punti di vista e le possibili soluzioni.

Questo è quanto viene chiesto oggi al giornalismo, che invece da parte sua risponde cercando di attirare lettori attraverso il clickbaiting, che non solo non è una risposta alle necessità economiche dei giornali, ma compromette terribilmente l’autorevolezza di una testata (chi mai acquisterebbe un abbonamento ad un sito che, a giudicare dai suoi account sui social, pubblica solo sciocchezze?).

Ma qui arriviamo alla questione fondamentale del giornalismo nell’era digitale, su cui da anni giornalisti ed editori si arrovellano apparentemente senza risultati: il modello di business. Come finanziare l’informazione se sempre più lettori si rifiutano di andare in edicola o di abbonarsi? La classica fonte di finanziamento dei giornali online, la pubblicità attraverso i banner, non sembra garantire entrate sufficienti. Anche il native advertising pare avere lo stesso problema, oltre a correre il rischio di confondere i lettori. Così recentemente sempre più testate hanno adottato dei paywall. Benché i primi esperimenti sembrino dare segnali positivi, non è detto che il paywall sia la soluzione definitiva, dato che i lettori di oggi si sono abituati ad usufruire di numerose fonti, la fedeltà ad un’unica testata pare destinata a scomparire. Maggiore fortuna potrebbe averla un paywall collettivo, una sorta di Netflix delle notizie, un abbonamento mensile per accedere a singoli articoli di diversi giornali. Qualcosa del genere lo sta facendo Blendle (presente al momento solo nei Paesi Bassi e in Germania e in procinto di sbarcare negli Usa), un nuovo servizio che, sebbene chieda di pagare una quota per ogni articolo (pochi centesimi), sembra avere un certo successo.

Il giornalismo al tempo di Internet sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto finora. Se sarà migliore, dipenderà soltanto dalla capacità dei media di qualità di adattarsi all’ambiente digitale e riuscire a soddisfare le necessità dei nuovi utenti che si stanno affacciando sul mercato dell’informazione. Un esempio di un quotidiano tradizionale rinato sotto il segno di Internet è il Washington Post che, da quando è stato acquistato dal fondatore di Amazon Jeff Bezos, è stato rinnovato dal punto di vista della forma e della distribuzione online, senza che la sua linea editoriale sia stata minimamente intaccata. In questo modo, è riuscito a riscattarsi dal suo lento declino e a superare il New York Times nel numero di utenti attivi mensili.

venerdì 1 aprile 2016

Referendum sulle Trivelle: tutto quello che c'è da sapere


Pubblico il copione scritto da me del nuovo video di Muovere Le Idee.

Ancora in pochi lo sanno, ma il prossimo 17 aprile si terrà un referendum a cui tutti i cittadini italiani sono chiamati a partecipare. Si tratta di un referendum abrogativo su un argomento un po’ ostico che ha a che fare con l’estrazione di gas e petrolio in mare. Vediamo insieme di cosa si tratta e quali sono le ragioni di chi è favorevole e di chi è contrario.

IL QUESITO

Già da qualche anno, in Italia, sono vietate le estrazioni di gas e petrolio in mare entro le 12 miglia nautiche (ovvero 22,2 chilometri), ma è stata prevista un’eccezione per le autorizzazioni già concesse, che potranno essere estese fino a che il giacimento non sarà esaurito, compresa la possibilità di costruire nuovi impianti. Il quesito che verrà posto sulla scheda chiederà ai votanti se vogliono abrogare questa eccezione (nel qual caso occorre votare “sì”) oppure sono d’accordo nel mantenerla (mettendo quindi una croce sul “no”). Perché il risultato della consultazione sia valido occorre che votino il 50% più uno degli aventi diritto. Se ciò succederà e se vincerà il “sì”, allora le piattaforme entro le 12 miglia marine dovranno essere smantellate alla scadenza della concessione, nel giro di pochi anni. Se non si raggiungerà il quorum o se vincerà il “no”, sarà come se il referendum non si fosse nemmeno tenuto.

COME CI SIAMO ARRIVATI

Perché si è giunti a votare su un argomento così specifico? La storia di questo referendum è un percorso ad ostacoli. Nel luglio dello scorso anno, il movimento politico Possibile presenta otto quesiti referendari, di cui due sulle trivellazioni, per i quali inizia a raccogliere le 500 mila firme richieste. Tuttavia, alla fine di settembre, non riesce ad arrivare alla cifra richiesta. Al suo posto dieci regioni, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise e l’Abruzzo, che poi ritirerà il suo sostegno, presentano 6 quesiti, tutti sull’estrazione di idrocarburi in mare. In autunno però, il governo cambia la normativa vigente all’interno della Legge di Stabilità, cercando di venire incontro alle regioni, al fine di evitare la consultazione referendaria. 5 dei 6 quesiti vengono così a decadere, mentre sopravvive solo quello su cui si andrà al voto. Alcune regioni chiederanno alla Corte Costituzionale di esprimersi su un conflitto di attribuzione dei poteri con il governo, per votare su altri due quesiti esclusi, ma il ricorso sarà giudicato inammissibile per questioni formali. Infine, questo inverno, il governo ha stabilito la data della consultazione, che però non si terrà lo stesso giorno delle elezioni amministrative previste sempre per questa primavera. Molti hanno visto in questa decisione il tentativo dell’esecutivo di non far raggiungere il quorum e hanno denunciato la maggiore spesa prevista per votare in due diversi appuntamenti, che ammonta a più di 300 milioni di euro.

GAS E PETROLIO IN ITALIA

Nel territorio italiano, le concessioni rilasciate dal governo per l’estrazione di idrocarburi, quindi petrolio o gas, sono 202: 133 sulla terraferma e 69 in mare. Molte di queste autorizzazioni sono state conferite diverso tempo fa, dato che le concessioni hanno una durata iniziale di trent’anni, prorogabili una prima volta per 10 anni, poi per 5, poi ancora per altri 5 e infine finché non si è esaurito il giacimento. Per quanto riguarda le concessioni in mare, queste vedono la presenza di 79 piattaforme eroganti, di cui 48 sono interessate dal referendum in quanto entro le 12 miglia dalla costa. La maggioranza di queste estrae gas.
Nel 2015, la produzione nazionale ha coperto il 9,1% dei consumi totali di petrolio e il 10,2% di quelli di gas. Tuttavia, secondo Greenpeace, le piattaforme interessate riguardano soltanto lo 0,8% del fabbisogno di petrolio e il 3% di quello di gas. C’è anche da dire che negli ultimi anni, complice la crisi economica, i consumi di questi idrocarburi in Italia sono scesi in modo lento ma costante.
In generale, non si può certo dire che l’Italia sia un paese ricco di risorse energetiche tradizionali. Infatti, stando alle riserve esistenti alla fine del 2006, se venisse estratto tutto il petrolio presente nei nostri giacimenti coprirebbe soltanto 1 anno e 3 mesi dei consumi nazionali, 2 anni per quanto riguarda il gas naturale. Queste stime però non considerano che una buona parte di queste risorse sono impossibili da recuperare. Tolte queste, le risorse nazionali basterebbero soltanto per pochi mesi o addirittura settimane.

LE RAGIONI DEL SÌ E DEL NO

Con l’indizione del referendum, diversi attori sociali hanno cominciato a schierarsi da una parte o dall’altra. 
Sul fronte del sì troviamo il Comitato No-Triv, a cui fanno riferimento diverse associazioni ambientaliste, a partire da Legambiente, Greenpeace e Wwf, ma anche partiti come il Movimento 5 Stelle, la Lega Nord, Sinistra Italiana, l’Altra Europa con Tsipras, Possibile. Troviamo anche i sindacati di base, mentre la Cgil è divisa.
Sul fronte del no, o meglio, dell’astensione (con l’obiettivo di non far raggiungere il quorum), vediamo il Partito Democratico (anche se la minoranza del partito voterà sì) e il Comitato Ottimisti e Razionali, composto da politici, esponenti del settore energetico e gente comune.
Vediamo allora le argomentazioni di queste due fazioni in lotta tra loro.

Per i sostenitori del sì, uno dei motivi principali per cui le trivelle andrebbero smantellate è quello ambientale. Un recente studio di Legambiente, realizzato sulla base di dati governativi provenienti da una trentina di impianti offshore, mostra come 3 piattaforme su 4 presentano, nei loro sedimenti marini, una contaminazione di almeno una sostanza pericolosa fra idrocarburi e metalli pesanti, alcune delle quali sono anche cancerogene. E anche le cozze pescate nelle vicinanze risultano contaminate. Ma i problemi ambientali sarebbero anche altri: gli impulsi sonori generati dagli air gun, gli strumenti usati per la scansione dei fondali al fine di rilevare i giacimenti, sono nocivi per la salute di alcuni pesci e crostacei. Inoltre, esiste il rischio di subsidenza per i fondali, ovvero di un loro progressivo sprofondamento. I fautori del sì sostengono poi che la presenza di trivelle sia negativa per il turismo.
Dalla parte del no, si contesta che i livelli di inquinamento e di danni all’ambiente non siano significativi e che gli impianti di estrazione non rappresentino un problema per il turismo, dal momento che le zone che ne vedono una presenza maggiore sono anche quelle più attrattive per i turisti. Anzi, per i sostenitori del no, ridurre la produzione nazionale di gas e petrolio aumenterebbe l’inquinamento invece di ridurlo, dato che implicherebbe l’acquisto di queste risorse dall’estero con conseguente passaggio di numerose petroliere nei nostri mari. I contrari al referendum affermano poi che questo settore dà lavoro a decine di migliaia di persone, posti di lavoro che andrebbero persi insieme alle conoscenze e professionalità acquisite dalle imprese italiane negli anni.
Tra i fautori del sì, invece, si evoca il rischio di incidenti che, sebbene non possano essere devastanti come quello del 2010 nel Golfo del Messico per via della struttura degli impianti italiani, potrebbero comunque provocare gravi danni alla fauna e alla flora marina.
I no ribattono che il rischio di incidenti sulle piattaforme di trivellazione è quasi trascurabile mentre è molto più alto per le petroliere, che sono attualmente il maggiore fattore di inquinamento del Mar Mediterraneo. I contrari al referendum sostengono inoltre che sia importante mantenere un certo livello di produzione interna di idrocarburi perché questo ci metterebbe almeno in parte al riparo dalle crisi internazionali.
Tra le fila dei sì, l'argomentazione che più viene usata per convincere gli indecisi è che un esito positivo di questo referendum darebbe un forte segnale alla politica, spingendola a dimostrare maggiore sensibilità verso i problemi ambientali e ad adottare misure per fermare il cambiamento climatico, come un più forte investimento sulle energie rinnovabili. Infatti, queste fonti di energia pulita stanno sempre più sostituendo quelle fossili: nel 2015, quasi un terzo dell'energia elettrica del nostro paese veniva prodotta da fonti rinnovabili, rappresentando il 17,3% dei consumi totali di energia (compresa quindi quella usata per muoverci e per riscaldarci), in costante aumento rispetto agli anni precedenti. Inoltre, i sostenitori del sì ricordano che, al fine di mantenere l'aumento della temperatura globale sotto i due gradi, così come stabilito nella Conferenza sul Clima di Parigi, è necessario che la maggior parte delle fonti fossili rimana nel sottosuolo.
Dal canto loro, i no sono contrari all'assegnare un significato politico al referendum e, in generale, affermano che delle fonti fossili non si possa ancora fare a meno.

INFORMAZIONI PRATICHE

Le urne saranno aperte domenica 17 aprile, dalle 7 alle 23. Potranno votare tutti i cittadini italiani maggiorenni, per la prima volta anche quelli momentaneamente all’estero, tramite il voto per corrispondenza organizzato dagli uffici consolari. Gli studenti fuori sede possono usufruire di sconti speciali sui treni oppure possono votare con alcuni escamotage nella città in cui si trovano. Per poter votare, è necessario essere muniti di carta d’identità e tessera elettorale.