giovedì 7 aprile 2016

Il giornalismo nell'era digitale

Pubblico l'articolo che ho scritto per il concorso "Amazon Scholarship per il Festival Internazionale di Giornalismo a Perugia".

Di recente ho assistito ad una scena che riassume in qualche modo il momento che sta vivendo il mondo del giornalismo. Durante un incontro con delle matricole all’università (classe 1996), un giornalista sulla sessantina, con occhiali rotondi, giacca grigia, cravatta e gilet chiede: “Dove vi informate? Sui giornali o sul web?”. Gli studenti si scambiano occhiate interrogative. “Sul web”, sussurra qualcuno timidamente. “Solo sul web? L’informazione online è gratis e i giornalisti non vengono pagati”. “Ma è più comodo: quando uno è sull’autobus, accende il telefono e consulta le notizie che preferisce”, azzarda una ragazza. Qualcuno, qualche fila dietro, aggiunge: “tramite Facebook, scopro cosa leggono i miei amici e posso condividere le stesse letture”.

È proprio la frattura generazionale che traspare da questo episodio a costituire il nocciolo del problema nella transizione del giornalismo nell’era di Internet. Da una parte, una generazione che rimane ancorata al vecchio giornale di carta, dal momento che è nata e cresciuta con quello, come oggetto e come immaginario. Dall’altra, una nuova generazione di nativi digitali, che intendono fruire dell’informazione in modi nuovi, sia nella forma (il web al posto della carta), sia nei contenuti. Ciò che rende tutto più difficile però è l’apparente incapacità del primo gruppo, che costituisce la classe dirigente del giornalismo italiano e non solo, a comprendere le necessità del secondo e a saperle soddisfare.

È opinione diffusa che chi si vuole tenere informato per bene possa farlo solo attraverso i tradizionali quotidiani cartacei. Ma ha ancora senso sostenere una tesi del genere nel 2016? I giornali di carta sono un prodotto caratteristico del XX secolo: nell’epoca pre-Internet l’unico modo per diffondere le notizie era quello di stamparle su parecchi fogli di carta e fargli percorrere decine o addirittura centinaia di chilometri affinché approdassero nelle edicole in tempo utile. Il lettore poi acquistava giornali di molte pagine per poi leggerne solo alcune, quelle con le notizie a cui era interessato. Oggi, tramite il web, possiamo accedere ad un maggior numero di contenuti con un semplice click, senza dovere sradicare alberi e senza muoverci da casa, potendo scegliere tra diversi punti di vista e diversi livelli di approfondimento. Perché un nativo digitare dovrebbe rinunciare a tutto questo?

Ma se i vecchi media non riescono a sfondare tra i più giovani non è solo una questione di forma, ma anche di sostanza. I temi che vengono trattati maggiormente non attirano più l’interesse dei lettori come facevano un tempo. Prendiamo la politica interna: ogni giorno fiumi di inchiostro vengono spesi per la cronaca parlamentare, i retroscena, i pastoni. Ma oggi “la politica non serve a niente”, come afferma Stefano Feltri nel titolo del suo ultimo libro, dato che il suo ruolo è sempre più eroso da altri attori come la tecnocrazia, le organizzazioni internazionali, i big della Rete, e quindi esercita sempre meno attrattiva. Anche altri contenuti ai quali i media tradizionali dedicano ancora molta attenzione, come le vicende interne alla Chiesa, la cronaca nera, un certo modo di parlare della cultura, non vedono condiviso lo stesso interesse da parte delle schiere di nuovi lettori. I nativi digitali si appassionano di più per gli esteri (avendo degli orizzonti che vanno ben al di là del vecchio stato nazione), per i temi sociali, per la tecnologia, per le nuove forme di espressione culturale. Inoltre, ai nuovi utenti dell’informazione non basta più seguire giorno dopo giorno l’accavallarsi di episodi e di prese di posizione sui vari temi; cercano invece un approccio più sistemico, di tipo problem solving, vogliono che venga presentato loro il problema (“spiegato bene”, come dicono al Post, e “senza giri di parole”, come fa The Post Internazionale), con ciò che c’è da sapere, compresi i diversi punti di vista e le possibili soluzioni.

Questo è quanto viene chiesto oggi al giornalismo, che invece da parte sua risponde cercando di attirare lettori attraverso il clickbaiting, che non solo non è una risposta alle necessità economiche dei giornali, ma compromette terribilmente l’autorevolezza di una testata (chi mai acquisterebbe un abbonamento ad un sito che, a giudicare dai suoi account sui social, pubblica solo sciocchezze?).

Ma qui arriviamo alla questione fondamentale del giornalismo nell’era digitale, su cui da anni giornalisti ed editori si arrovellano apparentemente senza risultati: il modello di business. Come finanziare l’informazione se sempre più lettori si rifiutano di andare in edicola o di abbonarsi? La classica fonte di finanziamento dei giornali online, la pubblicità attraverso i banner, non sembra garantire entrate sufficienti. Anche il native advertising pare avere lo stesso problema, oltre a correre il rischio di confondere i lettori. Così recentemente sempre più testate hanno adottato dei paywall. Benché i primi esperimenti sembrino dare segnali positivi, non è detto che il paywall sia la soluzione definitiva, dato che i lettori di oggi si sono abituati ad usufruire di numerose fonti, la fedeltà ad un’unica testata pare destinata a scomparire. Maggiore fortuna potrebbe averla un paywall collettivo, una sorta di Netflix delle notizie, un abbonamento mensile per accedere a singoli articoli di diversi giornali. Qualcosa del genere lo sta facendo Blendle (presente al momento solo nei Paesi Bassi e in Germania e in procinto di sbarcare negli Usa), un nuovo servizio che, sebbene chieda di pagare una quota per ogni articolo (pochi centesimi), sembra avere un certo successo.

Il giornalismo al tempo di Internet sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto finora. Se sarà migliore, dipenderà soltanto dalla capacità dei media di qualità di adattarsi all’ambiente digitale e riuscire a soddisfare le necessità dei nuovi utenti che si stanno affacciando sul mercato dell’informazione. Un esempio di un quotidiano tradizionale rinato sotto il segno di Internet è il Washington Post che, da quando è stato acquistato dal fondatore di Amazon Jeff Bezos, è stato rinnovato dal punto di vista della forma e della distribuzione online, senza che la sua linea editoriale sia stata minimamente intaccata. In questo modo, è riuscito a riscattarsi dal suo lento declino e a superare il New York Times nel numero di utenti attivi mensili.

venerdì 1 aprile 2016

Referendum sulle Trivelle: tutto quello che c'è da sapere


Pubblico il copione scritto da me del nuovo video di Muovere Le Idee.

Ancora in pochi lo sanno, ma il prossimo 17 aprile si terrà un referendum a cui tutti i cittadini italiani sono chiamati a partecipare. Si tratta di un referendum abrogativo su un argomento un po’ ostico che ha a che fare con l’estrazione di gas e petrolio in mare. Vediamo insieme di cosa si tratta e quali sono le ragioni di chi è favorevole e di chi è contrario.

IL QUESITO

Già da qualche anno, in Italia, sono vietate le estrazioni di gas e petrolio in mare entro le 12 miglia nautiche (ovvero 22,2 chilometri), ma è stata prevista un’eccezione per le autorizzazioni già concesse, che potranno essere estese fino a che il giacimento non sarà esaurito, compresa la possibilità di costruire nuovi impianti. Il quesito che verrà posto sulla scheda chiederà ai votanti se vogliono abrogare questa eccezione (nel qual caso occorre votare “sì”) oppure sono d’accordo nel mantenerla (mettendo quindi una croce sul “no”). Perché il risultato della consultazione sia valido occorre che votino il 50% più uno degli aventi diritto. Se ciò succederà e se vincerà il “sì”, allora le piattaforme entro le 12 miglia marine dovranno essere smantellate alla scadenza della concessione, nel giro di pochi anni. Se non si raggiungerà il quorum o se vincerà il “no”, sarà come se il referendum non si fosse nemmeno tenuto.

COME CI SIAMO ARRIVATI

Perché si è giunti a votare su un argomento così specifico? La storia di questo referendum è un percorso ad ostacoli. Nel luglio dello scorso anno, il movimento politico Possibile presenta otto quesiti referendari, di cui due sulle trivellazioni, per i quali inizia a raccogliere le 500 mila firme richieste. Tuttavia, alla fine di settembre, non riesce ad arrivare alla cifra richiesta. Al suo posto dieci regioni, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise e l’Abruzzo, che poi ritirerà il suo sostegno, presentano 6 quesiti, tutti sull’estrazione di idrocarburi in mare. In autunno però, il governo cambia la normativa vigente all’interno della Legge di Stabilità, cercando di venire incontro alle regioni, al fine di evitare la consultazione referendaria. 5 dei 6 quesiti vengono così a decadere, mentre sopravvive solo quello su cui si andrà al voto. Alcune regioni chiederanno alla Corte Costituzionale di esprimersi su un conflitto di attribuzione dei poteri con il governo, per votare su altri due quesiti esclusi, ma il ricorso sarà giudicato inammissibile per questioni formali. Infine, questo inverno, il governo ha stabilito la data della consultazione, che però non si terrà lo stesso giorno delle elezioni amministrative previste sempre per questa primavera. Molti hanno visto in questa decisione il tentativo dell’esecutivo di non far raggiungere il quorum e hanno denunciato la maggiore spesa prevista per votare in due diversi appuntamenti, che ammonta a più di 300 milioni di euro.

GAS E PETROLIO IN ITALIA

Nel territorio italiano, le concessioni rilasciate dal governo per l’estrazione di idrocarburi, quindi petrolio o gas, sono 202: 133 sulla terraferma e 69 in mare. Molte di queste autorizzazioni sono state conferite diverso tempo fa, dato che le concessioni hanno una durata iniziale di trent’anni, prorogabili una prima volta per 10 anni, poi per 5, poi ancora per altri 5 e infine finché non si è esaurito il giacimento. Per quanto riguarda le concessioni in mare, queste vedono la presenza di 79 piattaforme eroganti, di cui 48 sono interessate dal referendum in quanto entro le 12 miglia dalla costa. La maggioranza di queste estrae gas.
Nel 2015, la produzione nazionale ha coperto il 9,1% dei consumi totali di petrolio e il 10,2% di quelli di gas. Tuttavia, secondo Greenpeace, le piattaforme interessate riguardano soltanto lo 0,8% del fabbisogno di petrolio e il 3% di quello di gas. C’è anche da dire che negli ultimi anni, complice la crisi economica, i consumi di questi idrocarburi in Italia sono scesi in modo lento ma costante.
In generale, non si può certo dire che l’Italia sia un paese ricco di risorse energetiche tradizionali. Infatti, stando alle riserve esistenti alla fine del 2006, se venisse estratto tutto il petrolio presente nei nostri giacimenti coprirebbe soltanto 1 anno e 3 mesi dei consumi nazionali, 2 anni per quanto riguarda il gas naturale. Queste stime però non considerano che una buona parte di queste risorse sono impossibili da recuperare. Tolte queste, le risorse nazionali basterebbero soltanto per pochi mesi o addirittura settimane.

LE RAGIONI DEL SÌ E DEL NO

Con l’indizione del referendum, diversi attori sociali hanno cominciato a schierarsi da una parte o dall’altra. 
Sul fronte del sì troviamo il Comitato No-Triv, a cui fanno riferimento diverse associazioni ambientaliste, a partire da Legambiente, Greenpeace e Wwf, ma anche partiti come il Movimento 5 Stelle, la Lega Nord, Sinistra Italiana, l’Altra Europa con Tsipras, Possibile. Troviamo anche i sindacati di base, mentre la Cgil è divisa.
Sul fronte del no, o meglio, dell’astensione (con l’obiettivo di non far raggiungere il quorum), vediamo il Partito Democratico (anche se la minoranza del partito voterà sì) e il Comitato Ottimisti e Razionali, composto da politici, esponenti del settore energetico e gente comune.
Vediamo allora le argomentazioni di queste due fazioni in lotta tra loro.

Per i sostenitori del sì, uno dei motivi principali per cui le trivelle andrebbero smantellate è quello ambientale. Un recente studio di Legambiente, realizzato sulla base di dati governativi provenienti da una trentina di impianti offshore, mostra come 3 piattaforme su 4 presentano, nei loro sedimenti marini, una contaminazione di almeno una sostanza pericolosa fra idrocarburi e metalli pesanti, alcune delle quali sono anche cancerogene. E anche le cozze pescate nelle vicinanze risultano contaminate. Ma i problemi ambientali sarebbero anche altri: gli impulsi sonori generati dagli air gun, gli strumenti usati per la scansione dei fondali al fine di rilevare i giacimenti, sono nocivi per la salute di alcuni pesci e crostacei. Inoltre, esiste il rischio di subsidenza per i fondali, ovvero di un loro progressivo sprofondamento. I fautori del sì sostengono poi che la presenza di trivelle sia negativa per il turismo.
Dalla parte del no, si contesta che i livelli di inquinamento e di danni all’ambiente non siano significativi e che gli impianti di estrazione non rappresentino un problema per il turismo, dal momento che le zone che ne vedono una presenza maggiore sono anche quelle più attrattive per i turisti. Anzi, per i sostenitori del no, ridurre la produzione nazionale di gas e petrolio aumenterebbe l’inquinamento invece di ridurlo, dato che implicherebbe l’acquisto di queste risorse dall’estero con conseguente passaggio di numerose petroliere nei nostri mari. I contrari al referendum affermano poi che questo settore dà lavoro a decine di migliaia di persone, posti di lavoro che andrebbero persi insieme alle conoscenze e professionalità acquisite dalle imprese italiane negli anni.
Tra i fautori del sì, invece, si evoca il rischio di incidenti che, sebbene non possano essere devastanti come quello del 2010 nel Golfo del Messico per via della struttura degli impianti italiani, potrebbero comunque provocare gravi danni alla fauna e alla flora marina.
I no ribattono che il rischio di incidenti sulle piattaforme di trivellazione è quasi trascurabile mentre è molto più alto per le petroliere, che sono attualmente il maggiore fattore di inquinamento del Mar Mediterraneo. I contrari al referendum sostengono inoltre che sia importante mantenere un certo livello di produzione interna di idrocarburi perché questo ci metterebbe almeno in parte al riparo dalle crisi internazionali.
Tra le fila dei sì, l'argomentazione che più viene usata per convincere gli indecisi è che un esito positivo di questo referendum darebbe un forte segnale alla politica, spingendola a dimostrare maggiore sensibilità verso i problemi ambientali e ad adottare misure per fermare il cambiamento climatico, come un più forte investimento sulle energie rinnovabili. Infatti, queste fonti di energia pulita stanno sempre più sostituendo quelle fossili: nel 2015, quasi un terzo dell'energia elettrica del nostro paese veniva prodotta da fonti rinnovabili, rappresentando il 17,3% dei consumi totali di energia (compresa quindi quella usata per muoverci e per riscaldarci), in costante aumento rispetto agli anni precedenti. Inoltre, i sostenitori del sì ricordano che, al fine di mantenere l'aumento della temperatura globale sotto i due gradi, così come stabilito nella Conferenza sul Clima di Parigi, è necessario che la maggior parte delle fonti fossili rimana nel sottosuolo.
Dal canto loro, i no sono contrari all'assegnare un significato politico al referendum e, in generale, affermano che delle fonti fossili non si possa ancora fare a meno.

INFORMAZIONI PRATICHE

Le urne saranno aperte domenica 17 aprile, dalle 7 alle 23. Potranno votare tutti i cittadini italiani maggiorenni, per la prima volta anche quelli momentaneamente all’estero, tramite il voto per corrispondenza organizzato dagli uffici consolari. Gli studenti fuori sede possono usufruire di sconti speciali sui treni oppure possono votare con alcuni escamotage nella città in cui si trovano. Per poter votare, è necessario essere muniti di carta d’identità e tessera elettorale.