martedì 30 luglio 2013

Perché Berlusconi non è perseguitato dai giudici

Trenta luglio. L'appuntamento tanto atteso quanto temuto dalla politica italiana è arrivato. Tra poco scopriremo, insieme al destino di Silvio Berlusconi, quello del governo e dell'assetto politico del paese. Il leader di quello che alcuni sondaggi indicano come il primo partito italiano rischia oggi di essere condannato definitivamente a 4 anni di reclusione (tre coperti da indulto e il resto commutabile in affidamento ai servizi sociali, o comunque in arresti domiciliari) e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, anche se sono possibili altri finali come un rinvio o l'assoluzione.

Oggi rischia di finire quella che dal Pdl viene definita come una guerra lunga vent'anni tra Berlusconi e la magistratura, ma in realtà è soltanto il tentativo di un uomo di salvare se stesso e che, per farlo, ha portato a picco un'intera nazione. Molti però si sono fatti abbindolare e credono alle balzane tesi per cui la magistratura starebbe perseguitando il Cavaliere. In realtà non c'è alcuna prova o indizio che confermi questa posizione. Si dice che sia un'anomalia l'enorme numero di processi che l'hanno visto imputato, ma questo significa soltanto che è un recidivo con una “naturale capacità a delinquere” (sentenza d'appello Mediaset). Si dice che le sue grane giudiziarie siano iniziate con la sua discesa in campo, ma Berlusconi era già stato messo sotto la lente d'ingrandimento delle Fiamme Gialle nel 1979 e poi amnistiato per la P2 nell'83. Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset e uno degli uomini più vicini all'ex premier, ha dichiarato che se Berlusconi non fosse entrato in politica sarebbe finito in bancarotta e dietro le sbarre.

Dopo il processo di primo grado sul risarcimento alla Cir di De Benedetti per aver rubato la Mondadori comprando un giudice, Berlusconi sembrò avere in mano la prova definitiva sulla sua presunta persecuzione giudiziaria, tant'è che andava in giro ad insinuare che di lì a poco sarebbe emersa chissà quale rivelazione sul giudice che aveva emesso la sentenza. Qualche tempo dopo, una delle sue televisioni mandò in onda un servizio in cui il giudice veniva ripreso da lontano mentre si recava dal barbiere e lo si scherniva per i suoi calzini color turchese.

Per dimostrare definitivamente che la magistratura non si è accanita sul povero Berlusconi, dobbiamo scomodare la matematica. Secondo Wikipedia, il Cavaliere è stato coinvolto o sfiorato in almeno una trentina di casi giudiziari. Ogni procedimento richiede l'intervento di molti magistrati: il gip, il gup, il giudice di primo grado, i giudici d'appello e quelli della Cassazione. Lo stesso Berlusconi afferma che 900 magistrati si sono occupati di lui. Ora, quante probabilità ci sono che siano tutti magistrati comunisti, come viene affermato dal Cavaliere e dai suoi sodali? Ammesso e non concesso che tutti i magistrati iscritti a Magistratura Democratica (la corrente di sinistra del sindacato delle toghe) siano pronti a mettere a repentaglio la propria carriera per condannarlo anche se innocente (un altro dei refrain della sua difesa), com'è possibile che tutti quelli che incontra provengano da questa associazione se i suoi membri rappresentano meno del 10% del totale dei magistrati? Evidentemente, in politica, anche la matematica diventa un'opinione.

Al contrario, i giudici sono stati fin troppo buoni con il Cavaliere, concedendogli spesso le attenuanti generiche e sorvolando sul fatto che durante il processo Ruby egli stipendi tutti i testimoni (che li paghi lui stesso come con le ragazze delle “cene eleganti” o noi contribuenti come con i parlamentari coinvolti). L'opinione pubblica spesso non capisce che i magistrati non sono liberi di indagare, condannare o assolvere a loro piacimento, ma il loro comportamento deve aderire perfettamente a quanto prescrivono le centinaia di migliaia di leggi che popolano il nostro ordinamento.

La cosa più grave di tutto ciò è il tentativo, che dura da vent'anni, di demolire il potere giudiziario perché ritenuto troppo “giustizialista”. In realtà, se uno conoscesse il diritto degli altri paesi, saprebbe che il nostro sistema giudiziario è uno dei più garantisti del mondo. Solo in Italia sono garantiti a chiunque i tre gradi di giudizio, negli Stati Uniti solo con nuove prove si può accedere al secondo grado e la Corte Suprema esamina solo pochi casi all'anno. Inoltre nei sistemi anglosassoni di common law spesso a giudicare c'è una giuria popolare (quindi composta da persone che non conoscono approfonditamente la legge) che condanna e assolve in base al colore della pelle dell'imputato o al suo carisma. Per non parlare dei paesi in cui la magistratura inquirente è subalterna all'esecutivo.

Insomma, la storia della persecuzione giudiziaria nei confronti di Silvio Berlusconi è soltanto una balla inventata da un uomo talmente ricco e potente da così tanto tempo che, inconsciamente, nemmeno riesce ad immaginare che vengano posti limiti a ciò che può o non può fare. Così usa un potere politico e mediatico che nessun altro imputato al mondo possiede per cercare di sfuggire alle sue responsabilità. Quanto ai parlamentari del Pdl, lo difendono a spada tratta perché sanno perfettamente che, senza il loro leader, il partito creato a sua immagine e somiglianza non lo voterebbe più nessuno e loro finirebbero nell'oblio. Così l'Italia è rimasta bloccata per anni, appesa alle vicende giudiziarie di un solo uomo. Oggi questo potrebbe finire. Stiamo a vedere.

venerdì 26 luglio 2013

Caso Shalabayeva: responsabilità di chi?

Venerdì è stata votata la mozione di sfiducia individuale presentata da M5S e Sel nei confronti del ministro dell’interno e vicepremier Angelino Alfano per le sue responsabilità nel caso Shalabayeva, in quanto massima autorità politica del Viminale. È superfluo ricordare l’esito della votazione: il Pd ha dovuto chinare il capo (la responsabilità prima di tutto, non sia mai che il paese si trovi senza questo salvifico governo) e il Pdl ha vinto un’altra volta.

Della vicenda di Alma e Alua, rispettivamente moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov, principale oppositore del regime dittatoriale kazako, sappiamo ancora poco, ma le informazioni in nostro possesso ci bastano per esprimere un’opinione sull’accaduto. La donna e la bambina sono state prelevate dalla loro abitazione con un raid a cui hanno partecipato 40 agenti, la donna è stata tenuta 48 ore in uno dei centri per clandestini (vere e proprie carceri) per poi essere di fatto deportata nel suo paese, con una procedura al limite della legalità che fa impallidire la teoria sulle lungaggini della burocrazia italiana. Tutto ciò coordinato a regola d’arte da diplomatici kazaki che avevano praticamente preso possesso della stanza dei bottoni al ministero dell’interno. Ora, se anche qualche azzeccagarbugli riuscisse a dimostrare che, in base a qualche cavillo legale, le procedure seguite siano inoppugnabili (il che non sembra proprio), è chiaro che consegnare le famigliari di un dissidente politico al dittatore che lo perseguita, in modo che possa usarle come ostaggi, non è esattamente un atto di cui andare fieri.

In un paese normale, questi fatti porterebbero immediatamente la carica politica coinvolta (nella fattispecie il ministro dell’interno) a dimettersi senza nemmeno la necessità di interpellare il parlamento. Ma il nostro non è un paese normale. Così le opposizioni hanno dovuto presentare una mozione di sfiducia individuale nei confronti di Angelino Alfano. Era loro preciso dovere farlo e l’hanno fatto. Ciò che sorprende sono le reazioni stupefatte di diversi esponenti politici (soprattutto nella parte dem della maggioranza) alle barricate alzate dal Pdl intorno al suo segretario. Davvero potevano credere che si sarebbe dimesso spontaneamente per una “semplice” violazione dei diritti umani? Vogliamo ricordare che lo stesso Alfano proviene da una precedente esperienza governativa durante la quale naufraghi che avevano attraversato il Mediterraneo a bordo di carrette del mare venivano sistematicamente respinti indietro (senza verificare se potessero avanzare diritto d’asilo, un principio costituzionale) nelle braccia di un tiranno (Gheddafi, come quello kazako, sodale di Berlusconi) che li abbandonava nel deserto a morire di fame (fatti accertati da numerose inchieste giornalistiche).

È chiaro che le dimissioni di Alfano sono fortemente auspicabili ma, allo stesso tempo, sappiamo essere vane le speranze che arrivino per via dell’anomala natura del centrodestra nel nostro paese. Ciononostante non è la cacciata di Alfano quella che mi sembra più urgente al momento. Del resto quello che si può considerare il prestanome del Pdl ha i mesi contati: non appena Berlusconi verrà condannato per le sue vicende giudiziarie o si tornerà a elezioni con la candidatura supercompetitiva di Renzi, il Pdl sparirà e Alfano tornerà ad occupare la posizione sociale che gli compete. Ciò che mi preoccupa di più sono tutti quei funzionari e semplici agenti che hanno alacremente obbedito agli ordini dall’alto senza batter ciglio, anzi gioiendone per le promozioni che ne sarebbero conseguite (come hanno riportato alcune cronache giornalistiche). Qualcuno ai ranghi più alti è già saltato (ma solo per salvare il ministro), mentre tutto il resto dell’apparato non è stato nemmeno sfiorato. Si può dire che quelli sono uomini dello stato che stavano soltanto eseguendo le direttive assegnate, che stavano solo facendo il loro lavoro. Ma anche le guardie dei campi di concentramento facevano solo il loro lavoro. Ognuno è responsabile per le proprie azioni. Potevano anche non avere tutte le informazioni su quello che stava accadendo ma, umanamente, come si può permettere che una donna indifesa e la sua bambina di sei anni vengano trascinate via dalla loro casa (con annesse percosse ai loro famigliari parrebbe) e spedite dall’altra parte del mondo? Non sarebbe forse il caso di valutare anche le loro responsabilità? Non serve avere un cuor di leone per denunciare all’opinione pubblica, tramite la stampa, misfatti del genere. Basta avere una coscienza.

lunedì 1 luglio 2013

La favoletta per salvare il Pd

Negli ultimi mesi, a livello mediatico, è passato un messaggio tanto dirompente quanto erroneo: che il mancato varo del “governo del cambiamento” sia da imputarsi esclusivamente al Movimento 5 Stelle che non ha voluto in alcun modo collaborare con il Pd. Ma le condizioni poste da quest’ultimo erano davvero irricevibili.

L’opinione pubblica incolpa il M5S perché fin da subito ha detto di non volersi mischiare con i partiti responsabili dello sfascio del paese, mentre il Pd è apparso l’eroe pronto a immolarsi per il bene collettivo. In realtà, non è andata proprio così. Il Pd ha da subito trattato il M5S come una costola della sinistra, un Bertinotti qualsiasi, facendo promesse che assomigliavano più a slogan che a serie prese di posizione. Il centrosinistra ha improvvisamente scoperto temi come l’ambiente, la democrazia partecipata, i costi della politica su cui ha speso però parole vuote e piuttosto generiche. Inoltre, fra i famosi “otto punti”, Bersani ha indicato l’«urgenza» di una legge per regolamentare la vita interna dei partiti, obbligandoli ad adottare atti costitutivi e statuti, quindi organismi direttivi e regole interne. Non esattamente una cosa che possa accettare il M5S, con i suoi principi di democrazia diretta e interazione fluida, non mediata.

Ma il punto fondamentale di questo corteggiamento è il tipo di richiesta avanzata dai democratici. Il Pd ha messo sul piatto alcune monete di scambio per accaparrarsi i voti dei 5 stelle, che erano dovuti, dal loro punto di vista. Non ha, come avrebbe dovuto fare, avviato un dialogo alla pari, magari per un governo tecnico con il compito di mettere in atto i punti programmatici in comune alle due forze politiche. E non lo ha fatto, per un semplice motivo: non lo ha voluto fare. Davvero qualcuno può pensare che quei 101 che non hanno votato Prodi come presidente della repubblica e, più in generale, quella parte del Pd che ha spinto fin da subito per un accordo con il Pdl, avrebbe potuto accettare un governo con Pd e 5 stelle sullo stesso piano? Certo che no.

La storia per cui è tutta colpa del M5S è una favoletta che il Pd si racconta per non guardare alla sua drammatica situazione interna. Un partito diviso su tutto, con talmente tante anime da non averne nessuna. Un partito dove 101 persone affermano in assemblea che l’indomani avrebbero votato un candidato che poi, nel segreto dell’urna, tradiscono. E non un candidato qualsiasi, ma Prodi, uno dei fondatori del Pd e l’unico che è riuscito a sconfiggere Berlusconi non una, ma due volte. Un partito che non rispecchia la sua base, sicuramente più a sinistra e più desiderosa di cambiamento di chi la rappresenta in parlamento. È vero, come viene spesso ripetuto dai democratici, che Pdl e M5S sono due partiti anomali per l’importanza vitale rivestita dal loro leader per le sorti della forza politica, ma anche un partito con tutti i difetti del Pd è difficile da trovare negli altri paesi occidentali.