venerdì 26 dicembre 2014

Negli Stati Uniti arriva la ripresa: due riflessioni

Leggevo questo interessante articolo di Politico, dove si dice che, nonostante politici, giornalisti e la stessa opinione pubblica vedano gli Stati Uniti lungo un irreversibile declino, in realtà le cose stanno migliorando. Non solo dal punto di vista del mero livello della produzione (il dato è di questi giorni: il Pil americano è cresciuto del 5% nel terzo trimestre) o del tasso di disoccupazione (che è la metà di quello europeo), ma anche sotto alcuni aspetti sociali (meno fumatori, meno costi medici, meno crimini).

Tuttavia, la gente comune è scontenta e pensa che gli Usa si stiano impoverendo. Viene da chiedersi la ragione di questo divario tra la realtà effettiva e la sua percezione. A meno che la realtà effettiva sia ben diversa. Non mi si fraintenda: è vero che molte cose migliorano, è l'effetto del progresso sociale che, nonostante tutto, va avanti. Ma, per quanto riguarda l'economia, i dati che si utilizzano comunemente per coglierne l'andamento spesso non bastano. Perché, se è vero che l'economia cresce, non è affatto detto che lo faccia in modo uniforme: larghe fette di popolazione oggi sono più povere di com'erano prima della crisi e le loro prospettive per il futuro non sono affatto rosee. Si tratta di un aumento delle disuguaglianze, un tema visto come un tabù fuori dalle cerchie della sinistra radicale. Lo stesso dato della disoccupazione nasconde l'aumento dei lavori precari, dello sfruttamento e il numero di chi un'occupazione nemmeno la cerca più. Una possibile spiegazione di questa divaricazione tra crescita economica e riduzione delle prospettive lavorative si può trovare nel fenomeno della disoccupazione tecnologica che, come ho già spiegato, tende a sfoltire l'occupazione nei settori tradizionali e a premiare con redditi sempre maggiori le professioni ai vertici dell'economia.

Un'altra riflessione che fa sorgere l'editoriale in questione riguarda il confronto tra la situazione americana e quella europea. Se l'America, seppur con i problemi che si sono detti, si sta pian piano lasciando alle spalle la crisi economica, l'Europa sembra molto lontana dal farlo. Soprattutto i paesi del Sud (Portogallo, Spagna, Italia, Grecia) appaiono avviati ad una decadenza lenta ma certa. Come se i momenti di euforia economica e sociale che essi hanno vissuto dopo l'uscita dalle dittature fasciste che hanno avuto in comune, fossero terminati e l'apatia da post sbornia incombesse. Allo stesso tempo, però, per i meccanismi perversi dell'economia, su questi paesi si sono riversati gli effetti nefasti di un'integrazione europea interrotta a metà, dopo aver costruito un'unione monetaria senza aver prima edificato la necessaria unione politica. Ciò ha in gran parte determinato il decadimento economico di questi paesi, ma non quello etico e sociale che, almeno l'Italia, sta vivendo.

martedì 30 settembre 2014

L'austerità


Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del settimo video.

Negli scorsi video, abbiamo parlato della crisi economica mondiale del 2008 e della sua prosecuzione nella sola eurozona negli ultimi anni. Nell’area della moneta unica, infatti, la crisi è ancora in corso, molti paesi faticano a riprendersi, la disoccupazione resta alta, la produzione bassa. La ricetta adottata per uscire dalla recessione è quella del rigore e dell’austerità. Vediamo di cosa si tratta.

Le crisi non sono un evento raro nella storia economica. Nell’ultimo secolo ce ne sono state diverse, a partire dalla grande depressione del 1929, per uscire dalla quale il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt varò un ambizioso piano di riforme detto “New Deal” (“nuovo corso”), che cambiò radicalmente il rapporto dello stato con l’economia. Se prima l’intervento dello stato nel sistema economico era ridotto al lumicino, ora esso ricopriva un ruolo di primo piano. Infatti, Roosevelt diede il via ad una serie di investimenti pubblici nelle infrastrutture e a diverse riforme sociali, impegnando enormi quantità di fondi pubblici, al fine di far ripartire il sistema dell’economia americana. Il “New Deal” era ispirato dalle teorie di un celebre economista, John Maynard Keynes, il quale sosteneva che, in periodi di crisi, lo stato deve aumentare la propria spesa, per sostituirsi alla diminuita domanda di beni da parte dei privati. E, per farlo, può anche accendere nuovi debiti, a patto che li ricopra in periodi di espansione economica.

In questi anni, nell’eurozona, si sta facendo esattamente l’opposto. A fronte di una delle peggiori crisi di sempre, l’Unione sta chiedendo agli stati particolarmente in difficoltà di risanare i loro bilanci, tagliando le spese. Accade questo perché la speculazione finanziaria ha preso di mira i titoli del debito di alcuni stati, riassunti dall’acronimo Piigs (“maiali”, in inglese): Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Questi paesi hanno corso il rischio di non riuscire più a ripagare il loro debito, perché i mercati hanno cominciato a pretendere tassi di rendimento molto alti. Anche a causa del modo in cui è strutturata l’unione monetaria e ai meccanismi dell’euro, di cui abbiamo parlato in un altro video.

Con le turbolenze finanziarie, è iniziata anche una lotta politica tra i paesi del Nord Europa, considerati virtuosi perché hanno bilanci più solidi, e quelli del Sud Europa, i cui conti sono in condizioni peggiori. A questi è stato quindi richiesto di rispettare i cosiddetti parametri di Maastricht, sanciti dall’omonimo trattato del 1992, ma raramente rispettati da qualcuno finora. Le principali regole che impongono alle finanze pubbliche sono due: una sul deficit e una sul debito.
Il deficit è la differenza tra la uscite e le entrate del bilancio statale. Naturalmente se le uscite superano le entrate, il buco viene ricoperto emettendo nuovo debito. Per questo motivo, nel trattato è stato previsto che esso non possa superare il 3% del Pil. Anche se, in passato, questo tetto non è stato rispettato nemmeno dai paesi ritenuti virtuosi. L’altro parametro riguarda il debito pubblico, che non deve oltrepassare il 60% del Pil, anche se buona parte dei paesi europei supera questa soglia. Recentemente, per applicare questa regola, è stato firmato un altro trattato, il Fiscal Compact, che prevede la riduzione a tappe forzate del debito in eccesso.

Tutte queste regole sono state definite con la convinzione che solo un’economia con i fondamentali solidi e i conti apposto possa essere competitiva nel mondo della globalizzazione e possa aspettarsi una  una crescita costante nel lungo periodo.
Gli economisti di scuola keynesiana, dal canto loro, ritengono che il rapporto debito-Pil si possa abbassare soltanto agendo sul denominatore, ossia puntando sulla crescita per far salire il prodotto interno lordo, in modo che il debito in proporzione rappresenti un problema minore.
Se hanno ragione i fautori del rigore o i sostenitori di Keynes, solo il futuro potrà dircelo. Ciò che sappiamo è che la situazione è grave. Nei paesi del Sud Europa, la disoccupazione resta molto alta, l’industria è in declino e le prospettive per il futuro non sono affatto rosee. Solo con coraggiose e nette scelte politiche, potremo uscire dalla palude in cui siamo finiti.

martedì 16 settembre 2014

La crisi dell'Eurozona



Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del sesto video.

Nell’ultimo video abbiamo parlato della crisi economica del 2008. Iniziata come crisi finanziaria, ha presto colpito l’economia reale, causando una recessione in quasi tutti i paesi del mondo e portando la disoccupazione a livelli astronomici. Già dal 2010-2011, però, le principali economie del mondo stanno assistendo ad una ripresa. Chi è ancora alle prese con un’economia bloccata è l’eurozona, l’insieme dei paesi che hanno adottato l’euro.

Presto si è capito che la zona euro non poteva reagire in modo compatto alla crisi. L’alto debito di alcuni paesi cominciò a sembrare privo di garanzie di essere ripagato, dato che quegli stati non avevano più una sovranità monetaria e l’eurozona non era abbastanza integrata per coprire i paesi in difficoltà.
Un gruppo di stati europei, che avevano attraversato i primi anni di crisi senza forti sconvolgimenti, videro i titoli del loro debito pubblico essere scossi dalla speculazione e dai timori che essi non potessero più essere rimborsati. Lo spread, cioè il differenziale tra il rendimento di quei titoli e quelli dello stato più virtuoso, la Germania, continuava a crescere, rendendo più costoso per questi stati fare nuovi debiti. L'elenco di questi paesi è riassunto dall'acronimo “Piigs” (“maiali”, in inglese): Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

Il primo di loro a finire sotto il giogo della speculazione è stato la Grecia. Nel 2009, il governo appena eletto fu costretto a rivedere al rialzo la stima del deficit del bilancio statale, triplicandola, poiché il precedente esecutivo aveva falsificato i conti pubblici. Sui mercati si scatenò il panico. Le agenzie di rating, il cui compito è di fornire giudizi sui titoli, declassarono più volte quelli ellenici, fino ad etichettarli come spazzatura. Per scongiurare il rischio insolvenza, che si faceva sempre più reale, nel maggio 2010 fu varato un piano di aiuti da 110 miliardi di euro da parte della cosiddetta “troika”, l’insieme di Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. In cambio, la Grecia avrebbe dovuto avviare un piano di forti tagli alla spesa pubblica allo scopo di mettere in sicurezza il bilancio dello stato. Ma non bastò: negli anni successivi furono necessarie diverse ristrutturazioni del debito e un nuovo piano di salvataggio da 130 miliardi. Intanto, poco prima del G20 del 2011, il premier Papandreou aveva annunciato un referendum sull'accordo con la troika ma, dopo l'incontro dei leader mondiali, egli si dimise, lasciando il posto al governo tecnico di Lucas Papademos, ex membro della Bce.

Insieme al primo piano d'aiuti per la Grecia, la troika decise di costituire l'Efsf, un fondo per i paesi dell'eurozona in difficoltà. Mai scelta fu più saggia. Infatti, il contagio raggiunse altri paesi. Dopo essere stati fatti oggetto dell'attenzione della speculazione internazionale, sia l'Irlanda che il Portogallo ebbero bisogno di attingere a quei fondi, per 85 e 80 miliardi di euro rispettivamente. Anche Spagna e Italia sono finite nel mirino dei mercati finanziari. Entrambi i paesi videro i loro spread schizzare alle stelle. I loro governi si trovarono costretti a dimettersi nel novembre 2011. In Spagna si decise di andare ad elezioni anticipate, invece in Italia nacque il governo tecnico di Mario Monti, ex commissario europeo.

Se in un primo momento lo spread sembrò scendere, tra la primavera e l’estate del 2012, riprese la sua salita, segnalando crescenti timori dei mercati sulla tenuta delle economie dell’eurozona. A luglio, il presidente Mario Draghi annunciò che la Bce avrebbe fatto qualsiasi cosa necessaria per preservare la moneta unica. Questa dichiarazione sancì un principio già affermato dai fatti: la Banca Centrale Europea aveva messo in campo diverse misure non convenzionali in difesa dell’euro, dall’acquisto dei titoli degli stati sul mercato secondario per prolungati periodi di tempo, che fece calare lo spread, al drastico ribassamento dei tassi di interesse che ha immesso nel mercato molta liquidità, nella speranza che potesse favorire i prestiti alle imprese e incentivare gli investimenti. Queste misure insieme alla trasformazione del fondo salva-stati in un meccanismo permanente hanno a poco a poco ridotto la pressione speculativa sull’eurozona.

Nonostante la turbolenza finanziaria sull’area dell’euro si sia dissolta, le diverse economie fanno ancora molta fatica a riprendersi, anzi la recessione non è ancora terminata. Nel prossimo video, analizzeremo la ricetta adottata nel Vecchio Continente per voltare pagina, cioè la cosiddetta austerità.

martedì 2 settembre 2014

La crisi economica del 2008


Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del quinto video.

Da qualche anno, parole come crisi, disoccupazione, spread e default sono entrate nel vocabolario di tutti i giorni. Tutti noi conosciamo almeno qualcuno che ha perso il lavoro o ne sta cercando uno invano. La generazione che rischia di essere colpita di più è quella dei giovani: quasi uno su due è alla ricerca di un’occupazione. Il futuro sembra più che mai tetro.
Cerchiamo allora di capire come è nata questa crisi, a cosa è dovuta e cosa è stato fatto per risollevare le sorti della nostra economia.

Tutte le crisi economiche iniziano con lo scoppio di una bolla speculativa. Infatti, a volte, capita che i prezzi di un bene comincino a salire costantemente, alimentati dall’aspettativa che salgano ancora, e raggiungano livelli superiori al valore reale di quel bene. Poi all’improvviso ci si accorge che è tutta aria fritta e il valore del bene precipita di colpo. Si dice così che la bolla è “scoppiata”. Nel nostro caso, nel 2007 negli Stati Uniti, è la bolla immobiliare a deflagrare.

Il mondo usciva da un ventennio di rigogliosa crescita economica. I soldi giravano facilmente, grazie ai ridotti tassi di interesse. Inoltre, da tempo gli stati stavano portando avanti un processo di deregulation: con l’idea che troppe regole fossero nocive al sistema finanziario, molte furono cancellate, anche quelle scritte dopo le precedenti crisi. I diversi governi allentarono le briglie alla finanza che iniziò a inventare strumenti speculativi sempre più nuovi e complessi, come i derivati. In questi titoli tossici, venivano incorporati i mutui immobiliari che le banche concedevano a destra e a manca, anche a soggetti che non si potevano permettere di ripagarli. Titoli che venivano poi immessi sul mercato.

Questo schema dei cosiddetti mutui subprime resse fintanto che le banche centrali tenevano basso il costo del denaro ma, quando i rubinetti sono stati chiusi, il sistema è saltato. I prezzi delle case sono precipitati. Com’era prevedibile, molti non sono più riusciti a ripagare i loro mutui, determinando un’ondata di pignoramenti e grossi ammanchi nei bilanci delle banche. Un terremoto ha quindi travolto buona parte degli istituti finanziari, non solo quelli che avevano in pancia questi mutui, ma anche gli altri. Tutte le organizzazioni finanziarie hanno cominciato a chiedersi quanti titoli tossici avessero le altre nei loro bilanci e, non fidandosi più, hanno smesso di prestarsi soldi a vicenda.  Le arterie del credito si sono bloccate. Una crisi si allarga proprio quando la fiducia sui mercati, che è il bene più prezioso, viene meno.

Molti istituti hanno dichiarato bancarotta, come il colosso Lehman Brothers, il cui fallimento è il più grande della storia americana. Altri sono stati nazionalizzati, accorpati o messi in sicurezza grazie all’intervento pubblico. Il piano di salvataggio varato dall’amministrazione Bush ammontava a 770 miliardi di dollari, poi decuplicati negli anni. Anche le banche europee sono state travolte, buona parte dei paesi del Vecchio Continente hanno avviato delle nazionalizzazioni, specie nel Regno Unito, in Francia e in Germania. I diversi governi hanno erogato aiuti per 1.240 miliardi di euro.

Ma la crisi non è rimasta circoscritta al solo settore finanziario, ben presto si è allargata all’economia reale. Stop degli investimenti, calo della produzione, aumento della disoccupazione, arresto dei consumi: questi sono solo alcuni degli effetti della recessione che ha colpito la maggior parte dei paesi del mondo tra il 2008 e il 2009, la peggiore crisi economica dopo quella del ‘29. Nel biennio successivo, 2010-2011, si sono intravisti i primi segnali della ripresa, in realtà più nelle economie emergenti che in quelle avanzate. Segnali che si sono però accentuati nel 2012 in tutti i paesi colpiti dalla crisi, meno che quelli dell'eurozona. Nel prossimo video parleremo proprio della prosecuzione della crisi in alcuni dei paesi che hanno adottato l’euro.

domenica 24 agosto 2014

La 'visione' di Renzi

Riporto il ritratto del presidente del consiglio fatto da Marco Palombi sul Fatto Quotidiano di oggi, che condivido pienamente.

«Matteo Renzi non è un politico, ma qualcosa di meno e di più: è come uno di quei guru americani che insegnano al pubblico pagante l'autocura, l'autostima, l'autoinganno. Renzi vive in un mondo in cui basta sentirsi giusti, buttarsi e il resto vien da sé: quando uno si sente figo non ha nemmeno bisogno di essere coerente, perché è lui stesso il miracolo che stavamo aspettando e ignora, per così dire, ogni contraddizion che nol consente. L'equivoco narrativo che ne scaturisce - un impasto di vecchi adagi recuperati nel salotto di Nonna Speranza, cronaca mal digerita e buona coscienza a prezzi di saldo - viene generosamente chiamata "visione"».

martedì 22 luglio 2014

I sistemi elettorali



Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del quarto video.

In nessun paese al mondo si parla così tanto di sistemi elettorali come in Italia. Da quando è stato varato il cosiddetto Porcellum e soprattutto da quando la Consulta l’ha di fatto soppresso perché incostituzionale, si sostiene da più parti la necessità di una riforma. La discussione su questo tema può sembrare un po’ tecnica e astrusa ma il sistema elettorale scelto per un’elezione influisce non poco sui suoi risultati e sull’assetto del sistema dei partiti di un paese. Ma cos’è di preciso un sistema elettorale? Fra quali alternative possiamo sceglierne uno?

Il sistema elettorale di un parlamento (o di un altro organo elettivo) è il complesso di regole e procedure che convertono i voti espressi in seggi.
Il territorio della nazione viene diviso in circoscrizioni, detti anche collegi in certi casi. In ciascuno di essi, i partiti presentano uno o più candidati, fra i quali gli elettori residenti in quella circoscrizione possono esprimere il loro voto.
I modelli di sistema elettorale sono numerosissimi, quasi ogni paese ne ha uno diverso, ma possiamo distinguerli in due grandi categorie: i sistemi maggioritari e i sistemi proporzionali.
In un sistema maggioritario, il territorio viene diviso in collegi uninominali: ciò significa che ognuno di essi esprime un solo posto in parlamento. Ogni partito presenta un unico candidato e colui che raggiunge la maggioranza dei voti ottiene il seggio. Con il metodo plurality, è sufficiente prendere più voti di ciascuno degli altri candidati, ossia raggiungere la maggioranza relativa; con il metodo majority, è necessario ottenere la metà più uno dei voti, quindi la maggioranza assoluta, in caso contrario si procede ad un secondo turno a cui accedono i primi due candidati o quelli che hanno superato una certa soglia.
In un sistema proporzionale, invece, il territorio è diviso in circoscrizioni plurinominali: ogni lista presenta più candidati. I seggi vengono assegnati ai diversi partiti in base alla percentuale di voti ottenuti, secondo un principio di proporzionalità. Al fine di far scegliere gli eletti agli elettori, a volte, è previsto lo strumento delle preferenze, con cui è possibile indicare sulla scheda il nome di uno dei candidati della lista. Naturalmente, viene eletto chi ottiene più preferenze.
Il principale pregio di un sistema proporzionale è di assicurare la piena rappresentatività di tutte le forze politiche, anche di quelle minori, rispecchiando perfettamente il loro peso nell’elettorato. Il vantaggio, invece, di un sistema maggioritario è di garantire al partito o alla coalizione vincitori una solida maggioranza parlamentare, capace di dare al governo una certa stabilità.
Tuttavia, nella realtà, è difficile trovare un sistema puro, o solo maggioritario o solo proporzionale. Spesso vengono adottati dei sistemi misti. Per esempio, è possibile correggere un sistema proporzionale affinché produca alcuni effetti maggioritari, attraverso diversi meccanismi. Uno di questi è la soglia di sbarramento, che impedisce alle liste che non abbiano raggiunto una certa percentuale di voti di entrare in parlamento. Un altro è il premio di maggioranza, che conferisce al partito o alla coalizione più votati più seggi di quelli che gli spetterebbero con un riparto proporzionale. Infine, se vengono previste circoscrizioni particolarmente piccole, l’effetto proporzionale si attenua, venendo premiati i partiti maggiori.

Vediamo ora quali sono i sistemi elettorali adottati dai principali paesi del mondo.
Il sistema più antico è quello utilizzato dagli Stati Uniti d’America e dal Regno Unito. Infatti, in quasi tutti gli stati americani e nella Camera dei Comuni inglese, è in vigore un modello maggioritario ad un unico turno in collegi uninominali: il territorio nazionale è diviso in tante circoscrizioni quanti sono i membri del parlamento da eleggere, il candidato che vince con la maggioranza relativa ottiene il seggio.
Questo sistema è stato adottato anche in Francia, con la differenza che se, al primo turno, nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta e i voti di un quarto degli aventi diritto, si procede ad un secondo turno, a cui accedono soltanto i candidati che hanno superato la soglia del 12,5%, calcolata sugli aventi diritto al voto.
Una via di mezzo tra questi due modelli maggioritari è quella percorsa dall’Australia, dove viene applicato il voto alternativo. Nei collegi uninominali, gli elettori non devono scegliere il loro candidato con una ics, ma devono ordinare i vari nominativi con dei numeri, secondo le loro preferenze. Se il candidato che ha ottenuto più primi posti non raggiunge la maggioranza assoluta, si eliminano le schede di chi ha messo al primo posto il nome con minor consensi e le sue seconde preferenze vengono distribuite fra tutti gli altri. Se nemmeno così nessun candidato riesce ad ottenere il 50%+1 dei voti, vengono ridistribuite le terze preferenze e così via. Questo sistema non favorisce tanto la vittoria del partito preferito, ma di quello meno osteggiato.
Ritornando in Europa, per la Camera spagnola vige un modello proporzionale che però ha degli effetti fortemente maggioritari. Infatti, le circoscrizioni sono molto piccole, eleggono in media 7 deputati, e ciò penalizza molto i piccoli partiti, ad eccezione di quelli regionali, tant’è che la soglia di sbarramento del 3% indicata dalla legge elettorale nella pratica risulta essere molto più alta.
In Germania, invece, gli elettori ricevono due schede. Con una scelgono il partito preferito, che presenta una propria lista bloccata di candidati. Con l’altra, eleggono un candidato del loro territorio in un collegio uninominale a turno unico. La ripartizione dei seggi in parlamento viene però fatta in base alla prima scheda, quindi in modo proporzionale, fra tutte le liste che abbiano ottenuto almeno il 5% oppure tre collegi. I seggi vengono distribuiti a tutti i vincitori dei collegi uninominali più ad alcuni di quelli presenti nelle liste bloccate.
Dei rari casi di sistemi proporzionali puri si riscontrano nei Paesi Bassi e in Israele, dove è presente anche un unico collegio nazionale. Ci sono però alcune differenze tra i due modelli: in Israele le liste sono bloccate ed esiste una soglia di sbarramento al 2%, mentre nei Paesi Bassi gli elettori possono scegliere i singoli nomi e non c’è nessuna soglia da superare.

Dopo che la Corte Costituzionale è intervenuta sul precedente sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, il sistema attualmente vigente è sostanzialmente un proporzionale con soglie di sbarramento variabili e la possibilità di esprimere una preferenza, in ampie circoscrizioni.
Questo modello però non piace a nessuna delle principali forze politiche, quindi si è aperta la discussione su una nuova riforma, anche se i tempi per la sua approvazione non sembrano molto brevi.

giovedì 19 giugno 2014

Il Senato secondo Renzi

Uno dei temi di dibattito politico più caldi è la riforma della composizione e dei poteri del Senato, una delle due camere di cui è composto il nostro parlamento.
Per eliminare la ridondanza di due camere che fanno lo stesso lavoro, lo scorso 31 marzo, il governo Renzi ha presentato un disegno di legge costituzionale che, tra le altre cose, include proprio una trasformazione del senato. Ecco cosa prevede il progetto dell'esecutivo.

Innanzitutto, il nome cambia da “Senato della Repubblica” a “Senato delle Autonomie”. Infatti la principale modifica prevista riguarda la sua composizione. Il nuovo senato non sarà più eletto dai cittadini ma sarà composto da:
- i presidenti delle giunte regionali;
- i sindaci dei capoluoghi di regione;
- due membri di ciascun consiglio regionale;
- due sindaci eletti dall'assemblea di tutti i lori colleghi in ciascuna regione;
- 21 cittadini nominati dal Presidente della Repubblica, che rimarranno in carica per 7 anni.
Per risparmiare sui costi della politica, i membri del nuovo senato non riceveranno alcuna indennità.
Ma vediamo nello specifico i poteri che il senato manterrà. La nuova camera alta avrà ancora il potere di iniziativa legislativa, ossia potrà sempre presentare nuovi progetti di legge, e sarà ancora in grado di decidere sulle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, sull’elezione e sulla messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica ed infine sull’elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura e della Corte Costituzionale che spettano al parlamento.
Ciò di cui, invece, il senato non si occuperà più saranno la fiducia al governo e l’approvazione delle leggi ordinarie.
Ma sulle leggi ordinarie, il senato potrà esprimersi attraverso dei pareri, proponendo delle modifiche. Queste modifiche, se riguardano specifiche materie (come il rapporto dello stato con le autonomie locali), sono vincolanti per la camera, a meno che questa non voti contro a maggioranza assoluta.

Su questa proposta di riforma del senato, si sono subito alzate molte voci critiche.
I primi ad opporsi sono stati alcuni intellettuali o “professoroni”, come li ha definiti il presidente del consiglio, riuniti nell’associazione “Libertà e Giustizia”. Nel loro appello, giuristi del calibro di Rodotà e Zagrebelsky, hanno paventato il rischio di una “svolta autoritaria”.
A livello parlamentare, le posizioni dei partiti non sono affatto omogenee. Se il Movimento 5 Stelle è nettamente contrario, Forza Italia ha una posizione ambigua a riguardo, come del resto qualche disaccordo c’è anche nei partiti di maggioranza. Anche nello stesso partito del premier, il Pd, non c’è intesa: 22 senatori democratici hanno presentato un progetto alternativo, il cui primo firmatario è Vannino Chiti, che prevede il mantenimento del senato elettivo e la riduzione del numero dei parlamentari di entrambe le camere.
Dopo la vittoria alle elezioni europee, Matteo Renzi si è detto disponibile a trovare un compromesso, a patto che il senato diventi un organo non elettivo. Ma questa è una condizione che la controparte non intende accettare.
Alcuni giorni fa, lo stesso Chiti insieme a Corradino Mineo del Pd e Mario Mauro del gruppo "Per l'Italia" sono stati rimossi dalla commissione affari costituzionali del Senato proprio perché si opponevano alla proposta del governo. Per protestare contro questo allontanamento, 14 senatori si sono autosospesi dal Pd, decisione che poi è rientrata.
Ieri, il premier Renzi ha fatto sapere che l'accordo su un nuovo senato è «ad un passo». Esso rappresenterà probabilmente una mediazione tra le posizioni dei partiti di maggioranza con Forza Italia.

martedì 17 giugno 2014

Il bicameralismo


Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del terzo video.

Negli ultimi tempi, in Italia, si parla molto di riformare il Senato, una delle due camere di cui è composto il nostro parlamento.
Lo stesso governo Renzi ha proposto di trasformare il Senato in un Senato delle autonomie locali, con minori poteri rispetto alla Camera dei deputati. Ma perché esistono due camere e che poteri hanno attualmente?

Fin dalla loro nascita, i parlamenti hanno avuto più camere, ossia più organi assembleari, distinti in una camera alta e una camera bassa.
Il primo parlamento al mondo che ebbe dei poteri reali fu quello inglese che era, ed è tutt’oggi, costituito da una camera dei Lord, che rappresenta la classe nobiliare ed è nominata dal sovrano, e la camera dei Comuni, che era espressione della borghesia e, a partire da un certo momento, cominciò ad essere eletta dal popolo.
Con l’avanzamento del processo di democratizzazione, il senso delle due camere è cambiato: la camera bassa ha cominciato ad essere espressione della nazione nella sua interezza e del principio della sovranità popolare e la camera alta ha iniziato a rispondere al principio dell’autonomia degli enti locali o degli stati federati. Anche in Italia è così, seppur in modo attenuato: l’articolo 57 della costituzione stabilisce che la nostra camera alta, il Senato della Repubblica, è eletto “a base regionale”, mentre l'articolo 56 prevede che quella bassa, la Camera dei Deputati, sia eletta “a suffragio universale e diretto”.

Se ci sono due camere, come si dividono tra di loro i compiti da svolgere?
L’Italia è l’unico paese al mondo a prevedere un bicameralismo perfetto o paritario. Ciò significa che le due camere hanno esattamente gli stessi poteri. Tutte le decisioni devono essere prese insieme da Camera e Senato.
In tutte le altre democrazie, vige invece il bicameralismo imperfetto, in cui le due camere hanno funzioni differenziate: la camera bassa è quella che ha il potere più ampio, mentre la camera alta ha delle funzioni minori. Per esempio, il compito di dare la fiducia al governo (cioè la facoltà di decidere della sua vita o della sua morte) spetta solo alla camera bassa. Inoltre, spesso la camera alta non influisce nel processo di formazione delle leggi, se non con dei pareri o con la possibilità in certi casi di chiedere un riesame delle decisioni prese dalla camera bassa.
Allo stesso tempo, la camera alta può essere dotata di poteri di raccordo tra lo stato e le autonomie locali o gli stati federati, in modo da garantire un equilibrio tra gli organi centrali e quelli periferici.

Ma il modello bicamerale non è l’unico esistente. È vero, è quello adottato dalle democrazie più popolose, ma il maggior numero di parlamenti al mondo è monocamerale: una sola camera detiene tutti i poteri. Anche in Europa, alcuni paesi come la Grecia, il Portogallo o la Danimarca hanno scelto questo sistema.
Un pregio del monocameralismo è quello di rispecchiare il principio affermato con la rivoluzione francese dell’indivisibilità della sovranità popolare.
Tra le ragioni, invece, che giustificano il bicameralismo vi è quella di evitare la concentrazione di potere in un solo organo collegiale creandone un secondo che faccia da contrappeso. Inoltre, l’esame da parte di due camere, garantisce alle leggi una maggiore ponderazione che dovrebbe assicurare una qualità legislativa più alta.
Ma questo meccanismo rischia di rendere più lento l’iter legislativo o a creare dei gironi danteschi, come avviene in Italia con la cosiddetta “navetta”, ossia il procedimento che costringe un progetto di legge a fare avanti e indietro tra Camera e Senato finché non viene approvato nello stesso identico testo.

sabato 7 giugno 2014

Vengono qui e ci rubano il lavoro: sono le macchine

  Film e racconti di fantascienza hanno un'idea molto chiara sul futuro che attende il lavoro: le attività lavorative saranno delegate alle macchine, mentre gli esseri umani si godranno la vita senza preoccupazioni. Questo scenario può sembrare davvero fantascientifico, ma è senz'altro un probabile futuro visti gli enormi passi avanti che sta compiendo la tecnologia. Su questa prospettiva l'umanità fantastica da secoli: un'era dell'abbondanza in cui le persone si liberano dall'affanno per i problemi materiali e si dedicano ai loro affetti, al divertimento, alla crescita personale. Questo scenario è stato previsto da alcuni economisti, come John Maynard Keynes che, nel suo libricino Possibilità economiche per i nostri nipoti del 1930, profetizzò la liberazione da tutti i bisogni essenziali entro cento anni (ma solo se non ci fossero state tragiche guerre e se la popolazione non fosse cresciuta ad un ritmo troppo elevato, ipotesi puntualmente verificatesi), ma anche da alcuni scrittori, come Eugenio Montale in Auto da fé. Fin qui il futuro sembra promettere rose e fiori, ma come sarà la transizione verso questo paese di Bengodi? Quanti posti di lavoro si perderanno a causa dei robot che li occuperanno al posto degli umani? Riusciremo a riorganizzare la società in tempo?
Facciamo un passo indietro e veniamo ai giorni nostri. La crisi economica iniziata nel 2008, la peggiore da sempre a detta di molti, ha lasciato dietro di sé tassi di disoccupazione che non si erano mai visti prima. Se in molti paesi la recessione sembra sia finita, la situazione in Italia è ancora critica: secondo l'Istat, lo scorso marzo la percentuale di disoccupati si assestava al 12,7 per cento, ma quel che è peggio è il tasso della fascia giovanile, dai 15 ai 24 anni, pari al 42,7 per cento. E non è tutto, perché quello sulla disoccupazione è spesso un dato fuorviante, perché non include gli scoraggiati (quelli che un lavoro non ce l'hanno e lo cercano nemmeno più), i cassintegrati, i part time involontari e i precari. Tutta questa area di disagio lavorativo è stata stimata dall'Ires-Cgil in 8,7 milioni di persone nel 2012, quasi un quarto di tutta la popolazione in età lavorativa.
Quali sono le cause di questa cronica mancanza di lavoro? Secondo alcuni, la moneta unica europea è un serio problema per le economie più deboli dell'eurozona, tra cui l'Italia e la Grecia, poiché esportano meno verso le economie più forti di quanto queste facciano con loro e ciò crea uno squilibrio che costringe i cosiddetti Piigs a svalutare il costo del lavoro (non potendo svalutare una propria moneta nazionale). Secondo altri, sono i problemi interni al nostro paese, come la corruzione dilagante, la diffusa evasione fiscale e l'inerzia della burocrazia, a non attrarre chi vuole investire. È opinione di molti che sia la globalizzazione a soffocare l'economia italiana, dal momento che ci costringe a competere con paesi del mondo dove il costo del lavoro è infinitamente inferiore al nostro. Sicuramente c'è un fondo di verità (e anche qualcosa di più) in tutte queste argomentazioni, ma ci sentiamo di aggiungere un'altra possibile causa della disoccupazione: l'innovazione tecnologica.
Gli effetti del progresso tecnico sul lavoro sono già oggi sotto gli occhi di ciascuno di noi nella nostra vita quotidiana: il bancario sostituito dal bancomat, il barista rimpiazzato dal distributore di bevande, il cassiere del supermercato soppiantato dalla cassa automatica. Ci sono poi diversi esperimenti che lasciano presagire delle vere e proprie rivoluzioni in molti settori dell'economia. Recentemente si parla molto della Google Car, l'automobile sviluppata dal colosso americano di Internet che è in grado di guidare da sola, senza conducente, grazie ad alcuni sensori e ad un potente software. L'auto è stata già testata su strada e potrebbe debuttare sul mercato nel giro di pochi anni. Amazon, un'altra multinazionale nata sul Web, specializzata nel commercio online, ha invece annunciato che sta sviluppando un sistema per consegnare i suoi prodotti attraverso l'uso di droni. I piccoli aerei saranno in grado di trasportare pacchi anche di qualche chilo all'acquirente in trenta minuti dall'ordinazione. Un altro esempio ancora più vicino a noi sono le stampanti 3d. Già sul mercato da qualche anno, i loro prezzi si stanno abbassando molto, rendendole disponibili anche ai piccoli consumatori. Questi dispositivi permettono di fabbricare qualsiasi oggetto in plastica, preventivamente disegnato al pc, esattamente come oggi si fa con i documenti di testo.
Secondo la teoria economica, l'innovazione è l'unico fattore che garantisce la crescita della produzione pro capite nel lungo periodo. Essa permette di realizzare beni e servizi sempre migliori e di crearne di nuovi, con costi sempre più bassi. L'innovazione ha accompagnato l'umanità sin dalla sua nascita, ma non ha avuto un corso lineare: gli uomini primitivi hanno vissuto di caccia e raccolta per migliaia di anni prima di scoprire l'agricoltura e l'allevamento e ce ne sono volute altre migliaia per i primi utensili. Il vero punto di svolta è stato a cavallo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, con una serie di scoperte scientifiche che hanno dato il via alla prima rivoluzione industriale. Le prime macchine hanno cominciato a rimpiazzare l'uomo nel lavoro manuale e l'hanno continuato a fare in misura maggiore con la seconda rivoluzione industriale, nel Novecento. Oggi, con la terza rivoluzione industriale, l'innovazione potrebbe fare un balzo ancora più ampio. Come spiegano due ricercatori del Mit, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, nel loro libro The Second Machine Age, sta volgendo al termine la prima era della macchine, in cui esse sostituiscono l'uomo soltanto nei lavori manuali, e sta iniziando la seconda era della macchine, in cui si appropriano anche dei lavori intellettuali.
La ricerca sta infatti facendo passi enormi nel campo delle “macchine pensanti”. La sfida dei prossimi decenni sarà quella di creare computer che non abbiano più bisogno di essere programmati perché in grado di imparare da sé e, più in là, si potrebbe arrivare a dar vita addirittura all'intelligenza artificiale. Questi obiettivi non sono poi così avveniristici. Già ai nostri giorni, sulla maggior parte degli smartphone in circolazione, sono installati software di assistenza personale come Siri e Google Now, in grado di interagire a voce con l'utente e fornirgli tutte le informazioni di cui ha bisogno. Nel 2011, il supercomputer Watson dell'IBM ha sconfitto nel quiz tv Jeopardy! i più grandi campioni del programma, ascoltando e rispondendo a voce alle domande del conduttore e senza essere collegato ad Internet, ma facendo riferimento ad un proprio archivio di milioni di informazioni che scandagliava in pochi millesimi di secondo. E c'è solo da chiedersi cosa sarà in grado di fare tra qualche anno.  La capacità di elaborazione dei computer cresce infatti ad un ritmo esponenziale, letteralmente. Nel 1965, il futuro fondatore della Intel, Gordon Moore, predisse che la potenza di calcolo dei processori sarebbe raddoppiata ogni 18-24 mesi. Questa previsione, nota come Legge di Moore, è stata confermata fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza di questa inarrestabile marcia del progresso delle macchine è la cosiddetta “disoccupazione tecnologica”. Il tecnologo inglese Ben Way, nel suo libro Jobocalypse, afferma che il 70 per cento delle occupazioni oggi esistenti saranno cancellate dall'automazione. Una stima più prudenziale e più documentata contenuta in uno studio dell'Università di Oxford, firmato da Carl Frey e Michael Osborne, fissa al 47 per cento la quota di impieghi americani che saranno eliminati dalla disoccupazione tecnologica nell'arco di venti anni. Il settimanale Pagina99 ha riprodotto i risultati della ricerca in base ai parametri del mercato occupazionale italiano e ha quantificato i futuri disoccupati italiani in quasi 12 milioni.
Queste stime urtano contro quanto ci insegna l'ortodossia economica, secondo cui l'aumento della produttività determinato dal progresso tecnologico cancella sì molti posti di lavoro ma ne crea altri in settori diversi, in quanto il denaro che i consumatori non sborsano più per prodotti diventati più economici grazie all'innovazione, può essere speso nel soddisfacimento di nuovi bisogni degli individui e ciò si traduce in nuove occupazioni. Fino ad oggi, la storia ha confermato questa teoria ma il tipo di innovazione a cui assistiamo oggi potrebbe inficiarla. Come scrivono ancora Brynjolfsson e McAfee in un'altra loro pubblicazione, Race Against the Machine, il ritmo e la natura del progresso odierno porta ad una concentrazione del reddito nella fascia più alta della società, impoverendo la classe media e la classe più povera che pertanto non possono alimentare la domanda di beni necessaria a creare nuovi impieghi. Ciò avviene poiché gli unici a beneficiare di un'economia largamente automatizzata sono i membri di una ristretta élite (imprenditori, dirigenti, ricercatori, consulenti, lavoratori della conoscenza in generale, del marketing, dei media e dello spettacolo), che si arricchiscono alle spese dei lavoratori sostituiti dai robot. Basti pensare che fra il 2002 e il 2007, circa il 60 per cento della crescita salariale negli Stati Uniti è andata all'1 per cento più ricco della popolazione, perlopiù dirigenti le cui imprese fanno utili sempre più ingenti grazie all'innovazione tecnologica. E le disuguaglianze potrebbero diventare così ampie da paralizzare l'intero sistema economico.
Nel suo libro La fine del lavoro, Jeremy Rifkin racconta che, negli anni antecedenti alla crisi economica del 1929, negli Stati Uniti, una serie di innovazioni tecniche, come la catena di montaggio fordista, avevano drasticamente ridotto l'occupazione, determinando una sovrapproduzione che scatenò la peggiore crisi economica di sempre fino a quel momento, solo formalmente attestata con il “giovedì nero” di Wall Street. Le sorti dell'economia americana si risollevarono soltanto grazie al vertiginoso aumento della spesa pubblica, inaugurato dal New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt, e grazie all'economia di guerra. Rifkin spiega che «in passato, quando una rivoluzione tecnologica minacciava una massiccia contrazione dell'occupazione in un comparto dell'economia, emergevano nuovi settori che assorbivano la manodopera divenuta eccedente». Quando, all'inizio del Novecento, i contadini furono decimati dalla meccanizzazione dell'agricoltura, una crescente industrializzazione permise di assorbire quella manodopera; quando, tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Ottanta, i lavoratori delle fabbriche diminuirono per effetto dell'automazione, l'emergente settore dei servizi riuscì a dare lavoro a chi veniva licenziato; oggi, rispetto ad un settore terziario colpito dall'automazione, non sembra esserci un valido sostituto che possa riassorbire tutto il personale sostituito dalle macchine. Il settore quaternario, cioè i lavori della conoscenza, costituiscono una élite di pochi posti disponibili ai vertici del sistema economico, che non possono certamente accogliere intere masse di lavoratori lasciati per strada dalla disoccupazione tecnologica.
Che fare allora? Ci dobbiamo rassegnare a diventare tutti disoccupati? Sicuramente, non è una soluzione quella adottata agli albori della prima rivoluzione industriale. Il movimento del luddismo (che si ispirava a Ned Ludd, il primo ad intraprendere questa pratica nel 1779) si prefiggeva di distruggere materialmente macchinari come i telai meccanici che minacciavano di rimpiazzare il lavoro umano, specie nelle industrie tessili. La protesta coinvolse moltissimi operai inglesi scontenti per i bassi salari e per la disoccupazione e fu duramente repressa dal governo di sua maestà. Ma poi perché distruggere le macchine quando potrebbero liberarci dal fardello del lavoro? Forse la questione non è tanto la mancanza di occupazione ma è la riorganizzazione della società in modo che tutti abbiano di che vivere.
Su questa linea si muovono la proposte che vengono da più parti di cambiare radicalmente il sistema dell'educazione e ridurre le disuguaglianze. Secondo Brynjolfsson e McAfee, l'istruzione di domani non dovrebbe più orientarsi verso lo studio delle materie scientifiche e l'accumulo di nozioni ma verso le abilità creative, le discipline umanistiche e la capacità di pensiero critico. Così, in un mondo dove di eseguire gli ordini si occuperanno le macchine, l'uomo potrà dedicarsi ad inventare e innovare, facoltà che rimarranno precluse ai robot ancora per un bel po'. La rivoluzione della scuola però da sola non basta, i nuovi lavori della conoscenza saranno appannaggio di pochi, tutti gli altri rischiano di impoverirsi. Pertanto si fa quindi indispensabile un costante trasferimento di ricchezza da chi sarà sempre più ricco a chi sarà sempre più povero.
Dal canto suo, Rifkin accoglie la proposta molto in voga nei primi anni Novanta, specie negli ambienti sindacali ma non solo, riassunta nel famoso slogan «lavorare meno, lavorare tutti», ovvero ridurre l'orario di lavoro. Ciò permetterebbe di combattere la crescente disoccupazione redistribuendo il poco lavoro che rimane, con l'effetto certamente non negativo di aumentare il tempo libero. Ma il progetto di Rifkin è ben più articolato e suggestivo. L'accademico americano spiega che, negli anni a venire, entrambe le aree in cui è diviso il sistema economico, settore pubblico e settore privato, non saranno più in grado di soddisfare le esigenze delle persone: il lavoro e un salario. Se il settore privato sarà colpito dalla disoccupazione tecnologica e non potrà più offrire posti di lavoro, il settore pubblico non potrà sopperire il vuoto lasciato dal primo, sia perché troppo grande, sia perché è giunto al punto da non poter più spendere in deficit, sia perché il ruolo del governo centrale è stato e continuerà ad essere eroso dalla globalizzazione. In un simile scenario, si farà spazio il terzo settore, quello delle onlus, le organizzazioni senza scopo di lucro. La loro figura sarà al centro di nuovo contratto sociale, alla base del quale vi sarà un ripensamento dello spirito comunitario da parte delle masse di diseredati. Le comunità locali garantiranno una solida rete di protezione sociale e funzioneranno da antidoto alla criminalità e ai disordini sociali che molto probabilmente esploderanno a seguito della crescita della disoccupazione. Sarà compito dello stato, invece, assicurare un “salario sociale”, ossia un reddito minimo garantito, a chi perde il lavoro, a patto che si impegni a prestare il suo servizio nell'ambito del terzo settore o frequenti un corso di riqualificazione professionale.
Pensando agli effetti della disoccupazione tecnologica nel futuro, Brynjolfsson e McAfee si immaginano una sorta di “Atene digitale”. Tutti i cittadini dell'Atene antica, spiegano i due ricercatori del Mit di Boston, conducevano una vita agiata, partecipando democraticamente alla politica cittadina, creando arte e dedicandosi ai loro interessi, dal momento che disponevano di un grande massa di schiavi che svolgevano tutti i lavori più duri e soddisfacevano tutti i loro bisogni. Allo stesso modo, nella visione dei due americani, un giorno l'umanità potrà contare su macchine-schiavo che libereranno l'uomo dal lavoro. Ma c'è chi pensa che l'uomo non sia adatto ad alzarsi la mattina e non aver nessun compito da svolgere. Il premio Nobel per la letteratura Eugenio Montale, nella raccolta di saggi Auto da fé del 1966, prevedette che in futuro l'automazione avrebbe lasciato l'uomo con un sacco di tempo libero. «Perché si lavora?», si chiedeva Montale, «certo per produrre cose e servizi utili alla società umana, ma anche e sopratutto, per accrescere i bisogni dell’uomo, cioè per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo», perché «ammazzare il tempo è il problema sempre più preoccupante che si presenta all’uomo d’oggi di domani». Primo Levi, in un'intervista rilasciata a Philip Roth nel 1986 per il New York Times Book Review, affermò: «sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine, e che l’ozio, o il lavoro senza scopo provoca sofferenza e atrofia. […] Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale». Voltaire compendiò la sua opinione a riguardo nel seguente adagio: «il lavoro allontana tre grandi mali: la noia, il vizio ed il bisogno».
Insomma, il futuro che scorgiamo è in chiaroscuro: se da una parte la preoccupazione di non trovare lavoro sarà sempre più presente nelle nostre vite, dall'altra potrebbe avverarsi una vera e propria utopia, anelata da molti secoli a questa parte: liberarsi dal lavoro e godersi la vita. Per andare verso lo scenario più fausto, occorre rivoluzionare l'organizzazione del nostro sistema economico ma soprattutto cambiare il paradigma culturale dell'occupazione. Il lavoro deve uscire dalle logiche del mercato e abbracciare una concezione più legata allo sviluppo sociale. Il lavoro non deve essere un fine, ma il mezzo attraverso il quale l'individuo contribuisce attivamente al benessere della collettività.

venerdì 23 maggio 2014

Euro sì, Euro no



Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del secondo video.

Negli ultimi anni, nel cercare le cause di una delle peggiori crisi economiche di sempre, molti le hanno individuate nell’euro. Da allora, economisti e politici si sono divisi in pro e contro. Vediamo insieme come è nata questa moneta, quali sono i suoi problemi e se è possibile tornare alle vecchie divise nazionali.

L’euro nasce nel 1992 con il trattato di Maastricht, che stabilisce alcuni parametri che i paesi della cosiddetta eurozona avrebbero dovuto rispettare, tra cui il famigerato rapporto deficit/Pil al 3%. L’euro entra in vigore come valuta virtuale, ossia solo per i pagamenti elettronici, il 1° gennaio 1999. Da quel momento viene fissato il tasso di cambio con la lira: 1 euro sarebbe stato pari a 1936,27 lire. Dal capodanno del 2002, le monete e le banconote vere e proprie entrano in circolazione insieme alle lire. Questa convivenza non dura molto: dal marzo 2002 l’euro è l’unica moneta che può essere usata.
Inzialmente i paesi ad aderire all’euro sono 11 dei 15 membri dell’Unione Europea. Oggi sono saliti a 18 su 28.
A stampare la cartamoneta e a gestire il tasso ufficiale di sconto dell’euro è la Banca Centrale Europea, attualmente guidata dall’italiano Mario Draghi.

Vediamo ora quali sono i vantaggi e gli svantaggi, i pregi e i difetti dell’euro.
La principale ragione per cui l’euro è stato creato è che avrebbe permesso una maggiore integrazione europea.
Ma se è davvero tra le ragioni della crisi economica, ha anche favorito l’euroscetticismo che oggi dilaga.
L’euro ha permesso di creare un’alternativa al dollaro nel commercio internazionale, togliendo alla moneta americana il potere di fare il bello e il cattivo tempo sul mercato mondiale.
Inoltre, l’euro ha permesso di stabilizzare l’inflazione (cioè l’aumento dei prezzi) e, in un primo momento, ha abbassato i tassi di interesse sul debito pubblico.
Anche se, a partire dal 2011, gli altissimi valori dello spread, ovvero la differenza tra il tasso pagato sul debito italiano rispetto a quello pagato sul debito tedesco (quello più virtuoso nell’eurozona), è stato uno degli indicatori della crisi dei debiti sovrani.
Infatti, secondo molti, l’euro ha scatenato la crisi economica perché è una moneta unica per 18 economie diverse. E ciò è un problema dal momento che, se le economie più forti esportano di più verso le economie più deboli, queste ultime non possono ricorrere alla svalutazione del tasso di cambio della propria moneta nazionale e quindi sono costrette a ridurre i salari e tagliare il welfare.
Altri affermano però che il non poter più ricorrere alle svalutazioni monetarie spinge il paese a puntare sull’innovazione e sulle riforme, che nel lungo periodo sono l’unico fattore che fa crescere un paese.
Dall’altra parte, invece, si afferma che l’euro renderà i paesi del Sud Europa sempre più poveri e quelli del Nord sempre più ricchi. Ciò accade perché eurolandia non è un’Area Valutaria Ottimale, poiché non c’è mobilità dei fattori produttivi (è difficile che masse di lavoratori migrino all’interno dell’unione), non c’è convergenza dei tassi di interesse e tanto meno c’è integrazione fiscale (ovvero regimi di tassazione uniformi con redistribuzioni territoriali di ricchezza, come avviene in Italia tra il Nord e il Sud).
Alcuni però contestano che se i paesi del Nord Europa, come la Germania, rispondono bene alla crisi, è perché loro, a differenza dei paesi del Sud, hanno fatto le riforme necessarie, come quella del mercato del lavoro.

Facendo leva sui problemi legati all’euro, alcuni chiedono di intraprendere la via dell’uscita dalla moneta unica e di ritornare alle monete nazionali oppure adottare due monete, una per il Nord e una per il Sud Europa.
Ciò restituirebbe agli stati il potere di svalutare la propria moneta per incentivare le esportazioni.
Allo stesso tempo, però, le importazioni diverrebbero più costose, comprese quelle delle materie prime, comportando costi molti più elevati per le imprese nazionali e per i consumatori, che vedrebbero salire i prezzi dei beni di consumo, a causa di un aumento dell’inflazione.
D’altro canto, l’Italia riacquisterebbe la sovranità monetaria. Svincolandosi dal trattato di Maastricht, potrebbe attuare delle politiche in deficit e violare il celebre 3%; mentre Banca d’Italia si riprenderebbe il potere di controllare la politica monetaria e di comprare i titoli del debito pubblico.
Alcuni fanno però notare che una quota del debito rimarrebbe in euro e sarebbe più costosa da ripagare. Mentre ripudiarla sarebbe impensabile poiché, dal giorno dopo, i mercati internazionali ci volterebbero le spalle e nessuno acquisterebbe più titoli del nostro paese.
Ma il pericolo più grave dell’uscita dall’euro sarebbe la corsa agli sportelli che si verificherebbe non appena i risparmiatori avessero il minimo sentore di ciò che potrebbe succedere. Tutta la popolazione andrebbe in banca a ritirare i propri euro o a trasferirli all’estero prima che vengano trasformati in lire di minor valore. E anche i titoli del debito pubblico sarebbe venduti in massa, mandando il bilancio pubblico in default, in fallimento.
Per evitare tutto ciò, l’uscita dall’euro dovrebbe essere fatta all’improvviso e nel giro di pochissimo tempo.
I fautori della permanenza nell’euro propongono alcune soluzioni alternative all’uscita dalla moneta unica come la condivisione di parte del debito degli stati, una banca centrale che possa acquistare i titoli dei paesi membri, un quadro fiscale unico e, in sostanza, una maggiore integrazione europea. Ciò resta però altrettanto difficile in un contesto come quello attuale.

Nell’agone politico, le diverse forze non hanno tardato a prendere posizione sull’euro e sull’ipotesi dell’uscita dalla moneta unica.
Quasi tutti i partiti principali si sono schierati per la permanenza nell’unione monetaria, proponendo però soluzioni alternative come l’acquisto da parte della Bce dei titoli di stato.
Ad appoggiare l’ipotesi dell’uscita dall’euro sono invece Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega Nord, che lo ribadisce anche nel suo simbolo.
Il Movimento 5 Stelle invece propone da tempo un referendum sulla permanenza nell’euro, anche in modo da favorire il dibattito a riguardo.

giovedì 22 maggio 2014

Le europee, tra cavalli e concistori

L'Italia è un paese strano. Non le basta chiudere le urne un'ora dopo tutti gli altri stati europei, domenica prossima, mandando in fumo i piani di Bruxelles per far seguire lo spoglio del voto in diretta in tutta l'Unione Europea. Un'altra caratteristica peculiare del Belpaese (e anche del Mozambico, per essere precisi) è quella di proibire la diffusione dei sondaggi politico-elettorali nelle due settimane che precedono il voto, come previsto da una delle leggi sulla par condicio.

Così, per provare a capire in anticipo come andranno le elezioni europee in Italia, ci possiamo soltanto rifare a sondaggi un po' datati. L'ultima bussola dei sondaggi di SkyTg24 (ovvero la media dei sondaggi pubblicati in quei giorni) risale al 9 maggio e vedeva il Pd in pole position al 33,8%, che staccava praticamente di 10 punti il M5s, al 23,9. Forza Italia era in caduta libera al 18,4% e le uniche altre due liste che superavano la soglia di sbarramento al 4% erano la lista Ncd+Udc al 5,9 e la Lega Nord al 4,8. Esattamente sul ciglio del 4% c'era L'Altra Europa con Tsipras, mentre al di sotto annaspavano Fratelli d'Italia al 3,8 e Scelta Europea al 2,6.

Però, in questi giorni di buio statistico, su alcuni siti di sondaggi, sono comparse strane rilevazioni su singolari corse clandestine di cavalli e improbabili concistori. L'ultimo articolo pubblicato sul sito Notapolitica.it parla di una corsa clandestina tenuta ad un ippodromo ben Noto (Noto come l'IPR Marketing?), dove il destriero "Fan Faròn" si attesterebbe a 31 secondi, sopra il "pentastellato Igor Brick", che avrebbe chiuso a 26''. Più indietro, "Varenne" avrebbe totalizzato 18'' netti. Giù dal podio, il "nordico Groom de Bootz" a 6'' e il "governativo Ipson de Scipiòn" a 5,5''. Poi "Frerès Tricolòr" a 3,8'', il cavallo di origini greche "General de Etomatopoulòs" a 3,2'' e la strana coppia "Petit Jean-Ipson de la Boccòn" a 2''. Questi ultimi però potrebbero vedersi premiati dalla bassa affluenza sugli spalti e totalizzare punteggi più alti.

Sul sito YouTrend.it, invece, si parla di elezioni cardinalizie. C'è il cardinale "rottamatore" di Firenze, così chiamato perché avrebbe soffiato lo scranno a quello pisano, a 32 voti; c'è il "camerlengo di Genova" che riuscirebbe a portare dalla sua parte 26 porporati e infine il "prelato pelato di Monza e Brianza" raccoglierebbe 18 cardinali virgola 5 diaconi. Più staccati dai primi tre arriverebbero il "brioso cappellano di Milano", che farebbe incetta di 6 voti nelle fedeli parrocchie del Nord, e l'"arcivescono di Agrigento" a 4 vescovi e 5 diaconi. Sotto la soglia della scomunica dei 4 voti, si attesterebbero il "pope greco ortodosso Alexis" e la "Congregazione dei Fratelli" guidata da "sorella Giorgina", entrambi a 3 vescovi e 5 diaconi, e la "Triade della scelta" con due soli porporati.

domenica 11 maggio 2014

Le elezioni europee


Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del primo video.

Si dice che questa è la prima campagna elettorale europea in cui si discute davvero di temi europei. In realtà si parla solo di Euro e dei compiti e castighi che l’Europa ci assegna. Ma il funzionamento dell’Unione Europea è sconosciuto a molti.

Dal 1979, i cittadini dell’unione sono chiamati ad eleggere il parlamento europeo. Questa definizione è però fuorviante dal momento che il parlamento dell’unione non assume le decisioni da solo.
Quello europeo è l’unico parlamento al mondo che non ha il potere di fare proposte di legge. Questo compito spetta alla Commissione che crea le proposte di legge e le invia al Parlamento Europeo e al Consiglio dell’Unione Europea, che le devono approvare nello stesso testo.
La commissione europea è il governo dell’unione, il presidente della commissione è scelto dal Consiglio europeo. Egli dovrà poi nominare i commissari (il corrispettivo dei ministri) e ottenere la fiducia sia del Consiglio dell'Ue sia del Parlamento.
Il Consiglio dell’Unione Europea è l’organo che riunisce i ministri dei 28 stati membri della materia in discussione. 
Il Consiglio dell’Ue non è da confondere con il Consiglio europeo, che è l’organo che riunisce i capi di stato o di governo di tutti i paesi membri ed è il vero motore dell’unione in quanto stabilisce le priorità politiche, specie quelle volte a favorire l’integrazione, e non si deve confondere nemmeno con il Consiglio d’Europa, un’organizzazione esterna all’Unione Europea che promuove i diritti umani.

Dal 22 al 25 maggio si tengono in tutta l’unione le elezioni per scegliere i 751 membri del nuovo parlamento.
In Italia, le urne apriranno domenica 25 maggio dalle 7 alle 23. Il sistema elettorale italiano per il parlamento europeo è di tipo proporzionale, quindi i 73 seggi spettanti all’Italia, saranno ripartiti in base ai voti presi da ogni partito che abbia superato la soglia del 4% a livello nazionale. Il territorio italiano è diviso in 5 circoscrizioni: nord-ovest, nord-est, centro, sud e isole. In ciascuna di esse, ogni partito presenta una propria lista di candidati, tra cui l’elettore può esprimere fino a 3 preferenze e, questa è la novità di questa tornata elettorale, almeno una deve essere di sesso diverso dalle altre, pena l’annullamento della terza preferenza.
I partiti che si presentano alle elezioni europee sono quelli nazionali e, una volta eletti, confluiscono in raggruppamenti formati con i partiti degli altri paesi.

Nell’emiciclo del parlamento europeo, a farla da padroni sono la sinistra e la destra europee: il partito di Socialisti e Democratici, che ha aggiunto quest’ultimo termine al proprio nome proprio per accogliere il Partito Democratico italiano, e il Partito Popolare Europeo, in cui convergeranno Forza Italia, Nuovo Centro Destra e Südtiroler Volkspartei. Al centro troviamo l’Alde, i liberali europei, per i quali si presenta in Italia Scelta Europea, una lista di cui fanno parte Scelta Civica, Fare per fermare il declino e Centro Democratico. Nell’ala sinistra abbiamo anche i Verdi, il cui rappresentante italiano è Green Italia, e la Sinistra Unita, per la quale nel nostro paese si presenta la lista L’Altra Europa con Tsipras, promossa da alcuni intellettuali e partiti della sinistra. Alla destra del Ppe, invece, ci sono i conservatori, gli Euroscettici, in cui troviamo la Lega Nord, e il gruppo dei “non iscritti”, in cui sono presenti gruppi che non si riconoscono nelle altre formazioni e sono spesso anch’essi euroscettici. Nei “non iscritti”, una sorta di gruppo misto europeo, probabilmente confluiranno il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia.
Per la prima volta, votare per un partito significherà votare anche per il candidato presidente alla Commissione europea che quel partito propone. I candidati si sfideranno in un confronto tv in Eurovisione il 15 maggio, condotto da Monica Maggioni, direttrice di RaiNews24.

mercoledì 26 febbraio 2014

Le ragioni della staffetta e il nuovo governo

In men che non si dica, ieri il governo Renzi è entrato nel pieno dei suoi poteri. Ciò che fino a qualche settimana fa sembrava fantascienza è diventato realtà. Il segretario Pd si rimangia mesi di promesse, dal non voler prendere il posto di Letta al non voler arrivare a Palazzo Chigi senza passare dalle urne. E all'improvviso, l'orizzonte della legislatura si sposta alla sua scadenza naturale, il 2018. Cos'è accaduto in pochi giorni per determinare addirittura un cambio di governo?

L'ipoteca all'esecutivo Letta viene posta l'8 dicembre, il giorno delle primarie per la scelta del segretario del Partito Democratico. Il sindaco di Firenze le stravince, afferma che l'indomani l'agenda del governo cambierà ma promette la fiducia a Letta, che viene confermata dalle camere. In molti credono che il presidente del consiglio non possa stare tranquillo, ma il rischio che tutti evocano sono le elezioni in primavera, non di certo una staffetta a Palazzo Chigi.

Ottenuta la forte spinta propulsiva delle primarie, Renzi deve mostrare di non stare con le mani in mano e quindi si butta sulla legge elettorale. Ne propone tre tipi, tutti già sostenuti dalle forze parlamentari. I 5 stelle si chiamano fuori dalla discussione, Ncd fa melina e chi si butta a capofitto sull'opportunità di tornare a pieno titolo nella scena politica è Berlusconi. I due si riuniscono al Nazareno, sede del Pd, e allestiscono una legge a loro misura.

Intanto Letta, al governo, si tira fuori dalla questione legge elettorale e prepara il rilancio dell'esecutivo, già promesso dopo la fiducia parlamentare di metà dicembre. Rimanda il vertice con il presidente turco Erdogan perché "Impegno 2014" è la sua priorità assoluta. "Datemi dieci giorni", avverte. Ci vorrà più di un mese. Il presidente del consiglio presenterà il suo nuovo programma di governo il giorno prima di annunciare le sue dimissioni. Troppo tardi, l'establishment gli ha già preparato il sostituto.

Sì, perché a spingere Renzi verso Palazzo Chigi sono in molti. Berlusconi, innanzitutto, che in questo modo brucia il suo più grande competitor alle prossime elezioni, mentre è sicuro che non gli farà sgarbi, pena la rottura del patto sulla legge elettorale. Se ad Alfano va bene tutto (visto che non si può permettere di andare alle elezioni, non ha alcun potere contrattuale), nel Pd l'area cuperliana sconfitta alle primarie trova con Renzi al governo il modo, ristabilizzando una legislatura claudicante, di salvare la maggioranza bersaniana nei gruppi parlamentari, quindi anche di controllare il segretario. E, perché no, anche di bruciare l'avversario interno più temuto.

L'ultimo sponsor (e garante) che rimaneva a Letta era il presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Il capo dello stato era l'ultimo giapponese che continuava a difendere l'indifendibile Letta, contro tutto e tutti. Almeno fino alle rivelazioni del libro di Alan Friedman che, ricostruendo i mesi antecedenti alle dimissioni di Berlusconi e all'avvento di Monti nel novembre 2011, scopre che Napolitano aveva sondato già da luglio la disponibilità del presidente della Bocconi ad avvicendare il leader Pdl alla guida dell'esecutivo. Una non notizia, di per sé: nello stesso periodo, i giornali davano la sostituzione come imminente. Ma abbastanza per scatenare un fuoco di fila da Forza Italia e dal M5s, che aggiunge un ulteriore tassello alla propria richiesta di impeachment. Ma a mettere in mora l'autorità del presidente della repubblica non sono quei partiti che già non nascondevano il loro malcontento verso il suo operato, ma è la fonte della notizia: il Corriere, il giornale che rappresenta il salotto buono degli industriali e dei famigerati "poteri forti".

Infine, Renzi. A lui spettava l'ultima parola sul passaggio al governo. Se non avesse voluto farlo, non l'avrebbe fatto. Ma ha capito che le elezioni sarebbero state difficili da provocare, senza assumersene la responsabilità. Inoltre, crede fermamente nelle sue capacità salvifiche, è convinto di avere il tocco magico di Re Mida, di poter arrivare nella stanza dei bottoni e fare sfracelli. E poi, lasciar passare troppo tempo in quel limbo in cui si trovava, lo avrebbe impaludato e avrebbe frenato la sua forza elettorale in una successiva campagna.

Ed eccoci al governo Renzi I. Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà un cammino tortuoso per l'ormai ex sindaco di Firenze. Non appena si cominciava ad intravedere ciò che sarebbe successo, i sondaggi hanno registrato un tonfo per il Pd, chiaro segno che l'opinione pubblica non ha apprezzato l'ennesima manovra di palazzo e soprattutto lo sfratto, in una modo così brutale, di Letta. Poi la lista dei ministri: un'accozzaglia di rappresentanti di questo e quel partito, di questa e quella lobby, di rottamatori e rottamati tutti insieme appassionatamente. Nel discorso della fiducia, è stato inutile rompere le regolette del bon ton parlamentare per propinare le solite promesse a vuoto, senza alcuna proposta serie. Infine, il voto al Senato: 169 voti a favore, solamente 8 in più di quelli necessari e 4 in meno di quelli che ha ottenuto Letta a dicembre.

Dunque, è un governo già traballante in partenza? Può essere. Dalla sua però ha una situazione economica in leggero miglioramento (per il quale non dobbiamo certo ringraziare gli ultimi governi), anche se la disoccupazione e il disagio nel paese rimarranno gravi ancora per un bel po'. È possibile che Renzi riesca a varare qualche riforma spot che possa mantenerlo sulla cresta dell'onda ma difficilmente riuscirà ad avviare quel cambiamento radicale che molti si aspettano, soprattutto con una maggioranza così eterogenea. Quindi la vita del governo, e di conseguenza quella della legislatura, non ha esattamente le gambe corte (del resto tutte le volte che il parlamento rischia di andare a casa, c'è una forza fisiologica a salvare lo status quo, con tutti i privilegi e prebende che garantisce) ma sarà difficile arrivare fino al 2018, con un parlamento in burrasca e un paese che non lo sopporta più.