Pubblico l'articolo che ho scritto per il concorso "Amazon Scholarship per il Festival Internazionale di Giornalismo a Perugia".
Di recente ho assistito ad una scena che riassume in qualche modo il momento che sta vivendo il mondo del giornalismo. Durante un incontro con delle matricole all’università (classe 1996), un giornalista sulla sessantina, con occhiali rotondi, giacca grigia, cravatta e gilet chiede: “Dove vi informate? Sui giornali o sul web?”. Gli studenti si scambiano occhiate interrogative. “Sul web”, sussurra qualcuno timidamente. “Solo sul web? L’informazione online è gratis e i giornalisti non vengono pagati”. “Ma è più comodo: quando uno è sull’autobus, accende il telefono e consulta le notizie che preferisce”, azzarda una ragazza. Qualcuno, qualche fila dietro, aggiunge: “tramite Facebook, scopro cosa leggono i miei amici e posso condividere le stesse letture”.
È proprio la frattura generazionale che traspare da questo episodio a costituire il nocciolo del problema nella transizione del giornalismo nell’era di Internet. Da una parte, una generazione che rimane ancorata al vecchio giornale di carta, dal momento che è nata e cresciuta con quello, come oggetto e come immaginario. Dall’altra, una nuova generazione di nativi digitali, che intendono fruire dell’informazione in modi nuovi, sia nella forma (il web al posto della carta), sia nei contenuti. Ciò che rende tutto più difficile però è l’apparente incapacità del primo gruppo, che costituisce la classe dirigente del giornalismo italiano e non solo, a comprendere le necessità del secondo e a saperle soddisfare.
È opinione diffusa che chi si vuole tenere informato per bene possa farlo solo attraverso i tradizionali quotidiani cartacei. Ma ha ancora senso sostenere una tesi del genere nel 2016? I giornali di carta sono un prodotto caratteristico del XX secolo: nell’epoca pre-Internet l’unico modo per diffondere le notizie era quello di stamparle su parecchi fogli di carta e fargli percorrere decine o addirittura centinaia di chilometri affinché approdassero nelle edicole in tempo utile. Il lettore poi acquistava giornali di molte pagine per poi leggerne solo alcune, quelle con le notizie a cui era interessato. Oggi, tramite il web, possiamo accedere ad un maggior numero di contenuti con un semplice click, senza dovere sradicare alberi e senza muoverci da casa, potendo scegliere tra diversi punti di vista e diversi livelli di approfondimento. Perché un nativo digitare dovrebbe rinunciare a tutto questo?
Ma se i vecchi media non riescono a sfondare tra i più giovani non è solo una questione di forma, ma anche di sostanza. I temi che vengono trattati maggiormente non attirano più l’interesse dei lettori come facevano un tempo. Prendiamo la politica interna: ogni giorno fiumi di inchiostro vengono spesi per la cronaca parlamentare, i retroscena, i pastoni. Ma oggi “la politica non serve a niente”, come afferma Stefano Feltri nel titolo del suo ultimo libro, dato che il suo ruolo è sempre più eroso da altri attori come la tecnocrazia, le organizzazioni internazionali, i big della Rete, e quindi esercita sempre meno attrattiva. Anche altri contenuti ai quali i media tradizionali dedicano ancora molta attenzione, come le vicende interne alla Chiesa, la cronaca nera, un certo modo di parlare della cultura, non vedono condiviso lo stesso interesse da parte delle schiere di nuovi lettori. I nativi digitali si appassionano di più per gli esteri (avendo degli orizzonti che vanno ben al di là del vecchio stato nazione), per i temi sociali, per la tecnologia, per le nuove forme di espressione culturale. Inoltre, ai nuovi utenti dell’informazione non basta più seguire giorno dopo giorno l’accavallarsi di episodi e di prese di posizione sui vari temi; cercano invece un approccio più sistemico, di tipo problem solving, vogliono che venga presentato loro il problema (“spiegato bene”, come dicono al Post, e “senza giri di parole”, come fa The Post Internazionale), con ciò che c’è da sapere, compresi i diversi punti di vista e le possibili soluzioni.
Questo è quanto viene chiesto oggi al giornalismo, che invece da parte sua risponde cercando di attirare lettori attraverso il clickbaiting, che non solo non è una risposta alle necessità economiche dei giornali, ma compromette terribilmente l’autorevolezza di una testata (chi mai acquisterebbe un abbonamento ad un sito che, a giudicare dai suoi account sui social, pubblica solo sciocchezze?).
Ma qui arriviamo alla questione fondamentale del giornalismo nell’era digitale, su cui da anni giornalisti ed editori si arrovellano apparentemente senza risultati: il modello di business. Come finanziare l’informazione se sempre più lettori si rifiutano di andare in edicola o di abbonarsi? La classica fonte di finanziamento dei giornali online, la pubblicità attraverso i banner, non sembra garantire entrate sufficienti. Anche il native advertising pare avere lo stesso problema, oltre a correre il rischio di confondere i lettori. Così recentemente sempre più testate hanno adottato dei paywall. Benché i primi esperimenti sembrino dare segnali positivi, non è detto che il paywall sia la soluzione definitiva, dato che i lettori di oggi si sono abituati ad usufruire di numerose fonti, la fedeltà ad un’unica testata pare destinata a scomparire. Maggiore fortuna potrebbe averla un paywall collettivo, una sorta di Netflix delle notizie, un abbonamento mensile per accedere a singoli articoli di diversi giornali. Qualcosa del genere lo sta facendo Blendle (presente al momento solo nei Paesi Bassi e in Germania e in procinto di sbarcare negli Usa), un nuovo servizio che, sebbene chieda di pagare una quota per ogni articolo (pochi centesimi), sembra avere un certo successo.
Il giornalismo al tempo di Internet sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto finora. Se sarà migliore, dipenderà soltanto dalla capacità dei media di qualità di adattarsi all’ambiente digitale e riuscire a soddisfare le necessità dei nuovi utenti che si stanno affacciando sul mercato dell’informazione. Un esempio di un quotidiano tradizionale rinato sotto il segno di Internet è il Washington Post che, da quando è stato acquistato dal fondatore di Amazon Jeff Bezos, è stato rinnovato dal punto di vista della forma e della distribuzione online, senza che la sua linea editoriale sia stata minimamente intaccata. In questo modo, è riuscito a riscattarsi dal suo lento declino e a superare il New York Times nel numero di utenti attivi mensili.
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