sabato 7 giugno 2014

Vengono qui e ci rubano il lavoro: sono le macchine

  Film e racconti di fantascienza hanno un'idea molto chiara sul futuro che attende il lavoro: le attività lavorative saranno delegate alle macchine, mentre gli esseri umani si godranno la vita senza preoccupazioni. Questo scenario può sembrare davvero fantascientifico, ma è senz'altro un probabile futuro visti gli enormi passi avanti che sta compiendo la tecnologia. Su questa prospettiva l'umanità fantastica da secoli: un'era dell'abbondanza in cui le persone si liberano dall'affanno per i problemi materiali e si dedicano ai loro affetti, al divertimento, alla crescita personale. Questo scenario è stato previsto da alcuni economisti, come John Maynard Keynes che, nel suo libricino Possibilità economiche per i nostri nipoti del 1930, profetizzò la liberazione da tutti i bisogni essenziali entro cento anni (ma solo se non ci fossero state tragiche guerre e se la popolazione non fosse cresciuta ad un ritmo troppo elevato, ipotesi puntualmente verificatesi), ma anche da alcuni scrittori, come Eugenio Montale in Auto da fé. Fin qui il futuro sembra promettere rose e fiori, ma come sarà la transizione verso questo paese di Bengodi? Quanti posti di lavoro si perderanno a causa dei robot che li occuperanno al posto degli umani? Riusciremo a riorganizzare la società in tempo?
Facciamo un passo indietro e veniamo ai giorni nostri. La crisi economica iniziata nel 2008, la peggiore da sempre a detta di molti, ha lasciato dietro di sé tassi di disoccupazione che non si erano mai visti prima. Se in molti paesi la recessione sembra sia finita, la situazione in Italia è ancora critica: secondo l'Istat, lo scorso marzo la percentuale di disoccupati si assestava al 12,7 per cento, ma quel che è peggio è il tasso della fascia giovanile, dai 15 ai 24 anni, pari al 42,7 per cento. E non è tutto, perché quello sulla disoccupazione è spesso un dato fuorviante, perché non include gli scoraggiati (quelli che un lavoro non ce l'hanno e lo cercano nemmeno più), i cassintegrati, i part time involontari e i precari. Tutta questa area di disagio lavorativo è stata stimata dall'Ires-Cgil in 8,7 milioni di persone nel 2012, quasi un quarto di tutta la popolazione in età lavorativa.
Quali sono le cause di questa cronica mancanza di lavoro? Secondo alcuni, la moneta unica europea è un serio problema per le economie più deboli dell'eurozona, tra cui l'Italia e la Grecia, poiché esportano meno verso le economie più forti di quanto queste facciano con loro e ciò crea uno squilibrio che costringe i cosiddetti Piigs a svalutare il costo del lavoro (non potendo svalutare una propria moneta nazionale). Secondo altri, sono i problemi interni al nostro paese, come la corruzione dilagante, la diffusa evasione fiscale e l'inerzia della burocrazia, a non attrarre chi vuole investire. È opinione di molti che sia la globalizzazione a soffocare l'economia italiana, dal momento che ci costringe a competere con paesi del mondo dove il costo del lavoro è infinitamente inferiore al nostro. Sicuramente c'è un fondo di verità (e anche qualcosa di più) in tutte queste argomentazioni, ma ci sentiamo di aggiungere un'altra possibile causa della disoccupazione: l'innovazione tecnologica.
Gli effetti del progresso tecnico sul lavoro sono già oggi sotto gli occhi di ciascuno di noi nella nostra vita quotidiana: il bancario sostituito dal bancomat, il barista rimpiazzato dal distributore di bevande, il cassiere del supermercato soppiantato dalla cassa automatica. Ci sono poi diversi esperimenti che lasciano presagire delle vere e proprie rivoluzioni in molti settori dell'economia. Recentemente si parla molto della Google Car, l'automobile sviluppata dal colosso americano di Internet che è in grado di guidare da sola, senza conducente, grazie ad alcuni sensori e ad un potente software. L'auto è stata già testata su strada e potrebbe debuttare sul mercato nel giro di pochi anni. Amazon, un'altra multinazionale nata sul Web, specializzata nel commercio online, ha invece annunciato che sta sviluppando un sistema per consegnare i suoi prodotti attraverso l'uso di droni. I piccoli aerei saranno in grado di trasportare pacchi anche di qualche chilo all'acquirente in trenta minuti dall'ordinazione. Un altro esempio ancora più vicino a noi sono le stampanti 3d. Già sul mercato da qualche anno, i loro prezzi si stanno abbassando molto, rendendole disponibili anche ai piccoli consumatori. Questi dispositivi permettono di fabbricare qualsiasi oggetto in plastica, preventivamente disegnato al pc, esattamente come oggi si fa con i documenti di testo.
Secondo la teoria economica, l'innovazione è l'unico fattore che garantisce la crescita della produzione pro capite nel lungo periodo. Essa permette di realizzare beni e servizi sempre migliori e di crearne di nuovi, con costi sempre più bassi. L'innovazione ha accompagnato l'umanità sin dalla sua nascita, ma non ha avuto un corso lineare: gli uomini primitivi hanno vissuto di caccia e raccolta per migliaia di anni prima di scoprire l'agricoltura e l'allevamento e ce ne sono volute altre migliaia per i primi utensili. Il vero punto di svolta è stato a cavallo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, con una serie di scoperte scientifiche che hanno dato il via alla prima rivoluzione industriale. Le prime macchine hanno cominciato a rimpiazzare l'uomo nel lavoro manuale e l'hanno continuato a fare in misura maggiore con la seconda rivoluzione industriale, nel Novecento. Oggi, con la terza rivoluzione industriale, l'innovazione potrebbe fare un balzo ancora più ampio. Come spiegano due ricercatori del Mit, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, nel loro libro The Second Machine Age, sta volgendo al termine la prima era della macchine, in cui esse sostituiscono l'uomo soltanto nei lavori manuali, e sta iniziando la seconda era della macchine, in cui si appropriano anche dei lavori intellettuali.
La ricerca sta infatti facendo passi enormi nel campo delle “macchine pensanti”. La sfida dei prossimi decenni sarà quella di creare computer che non abbiano più bisogno di essere programmati perché in grado di imparare da sé e, più in là, si potrebbe arrivare a dar vita addirittura all'intelligenza artificiale. Questi obiettivi non sono poi così avveniristici. Già ai nostri giorni, sulla maggior parte degli smartphone in circolazione, sono installati software di assistenza personale come Siri e Google Now, in grado di interagire a voce con l'utente e fornirgli tutte le informazioni di cui ha bisogno. Nel 2011, il supercomputer Watson dell'IBM ha sconfitto nel quiz tv Jeopardy! i più grandi campioni del programma, ascoltando e rispondendo a voce alle domande del conduttore e senza essere collegato ad Internet, ma facendo riferimento ad un proprio archivio di milioni di informazioni che scandagliava in pochi millesimi di secondo. E c'è solo da chiedersi cosa sarà in grado di fare tra qualche anno.  La capacità di elaborazione dei computer cresce infatti ad un ritmo esponenziale, letteralmente. Nel 1965, il futuro fondatore della Intel, Gordon Moore, predisse che la potenza di calcolo dei processori sarebbe raddoppiata ogni 18-24 mesi. Questa previsione, nota come Legge di Moore, è stata confermata fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza di questa inarrestabile marcia del progresso delle macchine è la cosiddetta “disoccupazione tecnologica”. Il tecnologo inglese Ben Way, nel suo libro Jobocalypse, afferma che il 70 per cento delle occupazioni oggi esistenti saranno cancellate dall'automazione. Una stima più prudenziale e più documentata contenuta in uno studio dell'Università di Oxford, firmato da Carl Frey e Michael Osborne, fissa al 47 per cento la quota di impieghi americani che saranno eliminati dalla disoccupazione tecnologica nell'arco di venti anni. Il settimanale Pagina99 ha riprodotto i risultati della ricerca in base ai parametri del mercato occupazionale italiano e ha quantificato i futuri disoccupati italiani in quasi 12 milioni.
Queste stime urtano contro quanto ci insegna l'ortodossia economica, secondo cui l'aumento della produttività determinato dal progresso tecnologico cancella sì molti posti di lavoro ma ne crea altri in settori diversi, in quanto il denaro che i consumatori non sborsano più per prodotti diventati più economici grazie all'innovazione, può essere speso nel soddisfacimento di nuovi bisogni degli individui e ciò si traduce in nuove occupazioni. Fino ad oggi, la storia ha confermato questa teoria ma il tipo di innovazione a cui assistiamo oggi potrebbe inficiarla. Come scrivono ancora Brynjolfsson e McAfee in un'altra loro pubblicazione, Race Against the Machine, il ritmo e la natura del progresso odierno porta ad una concentrazione del reddito nella fascia più alta della società, impoverendo la classe media e la classe più povera che pertanto non possono alimentare la domanda di beni necessaria a creare nuovi impieghi. Ciò avviene poiché gli unici a beneficiare di un'economia largamente automatizzata sono i membri di una ristretta élite (imprenditori, dirigenti, ricercatori, consulenti, lavoratori della conoscenza in generale, del marketing, dei media e dello spettacolo), che si arricchiscono alle spese dei lavoratori sostituiti dai robot. Basti pensare che fra il 2002 e il 2007, circa il 60 per cento della crescita salariale negli Stati Uniti è andata all'1 per cento più ricco della popolazione, perlopiù dirigenti le cui imprese fanno utili sempre più ingenti grazie all'innovazione tecnologica. E le disuguaglianze potrebbero diventare così ampie da paralizzare l'intero sistema economico.
Nel suo libro La fine del lavoro, Jeremy Rifkin racconta che, negli anni antecedenti alla crisi economica del 1929, negli Stati Uniti, una serie di innovazioni tecniche, come la catena di montaggio fordista, avevano drasticamente ridotto l'occupazione, determinando una sovrapproduzione che scatenò la peggiore crisi economica di sempre fino a quel momento, solo formalmente attestata con il “giovedì nero” di Wall Street. Le sorti dell'economia americana si risollevarono soltanto grazie al vertiginoso aumento della spesa pubblica, inaugurato dal New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt, e grazie all'economia di guerra. Rifkin spiega che «in passato, quando una rivoluzione tecnologica minacciava una massiccia contrazione dell'occupazione in un comparto dell'economia, emergevano nuovi settori che assorbivano la manodopera divenuta eccedente». Quando, all'inizio del Novecento, i contadini furono decimati dalla meccanizzazione dell'agricoltura, una crescente industrializzazione permise di assorbire quella manodopera; quando, tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Ottanta, i lavoratori delle fabbriche diminuirono per effetto dell'automazione, l'emergente settore dei servizi riuscì a dare lavoro a chi veniva licenziato; oggi, rispetto ad un settore terziario colpito dall'automazione, non sembra esserci un valido sostituto che possa riassorbire tutto il personale sostituito dalle macchine. Il settore quaternario, cioè i lavori della conoscenza, costituiscono una élite di pochi posti disponibili ai vertici del sistema economico, che non possono certamente accogliere intere masse di lavoratori lasciati per strada dalla disoccupazione tecnologica.
Che fare allora? Ci dobbiamo rassegnare a diventare tutti disoccupati? Sicuramente, non è una soluzione quella adottata agli albori della prima rivoluzione industriale. Il movimento del luddismo (che si ispirava a Ned Ludd, il primo ad intraprendere questa pratica nel 1779) si prefiggeva di distruggere materialmente macchinari come i telai meccanici che minacciavano di rimpiazzare il lavoro umano, specie nelle industrie tessili. La protesta coinvolse moltissimi operai inglesi scontenti per i bassi salari e per la disoccupazione e fu duramente repressa dal governo di sua maestà. Ma poi perché distruggere le macchine quando potrebbero liberarci dal fardello del lavoro? Forse la questione non è tanto la mancanza di occupazione ma è la riorganizzazione della società in modo che tutti abbiano di che vivere.
Su questa linea si muovono la proposte che vengono da più parti di cambiare radicalmente il sistema dell'educazione e ridurre le disuguaglianze. Secondo Brynjolfsson e McAfee, l'istruzione di domani non dovrebbe più orientarsi verso lo studio delle materie scientifiche e l'accumulo di nozioni ma verso le abilità creative, le discipline umanistiche e la capacità di pensiero critico. Così, in un mondo dove di eseguire gli ordini si occuperanno le macchine, l'uomo potrà dedicarsi ad inventare e innovare, facoltà che rimarranno precluse ai robot ancora per un bel po'. La rivoluzione della scuola però da sola non basta, i nuovi lavori della conoscenza saranno appannaggio di pochi, tutti gli altri rischiano di impoverirsi. Pertanto si fa quindi indispensabile un costante trasferimento di ricchezza da chi sarà sempre più ricco a chi sarà sempre più povero.
Dal canto suo, Rifkin accoglie la proposta molto in voga nei primi anni Novanta, specie negli ambienti sindacali ma non solo, riassunta nel famoso slogan «lavorare meno, lavorare tutti», ovvero ridurre l'orario di lavoro. Ciò permetterebbe di combattere la crescente disoccupazione redistribuendo il poco lavoro che rimane, con l'effetto certamente non negativo di aumentare il tempo libero. Ma il progetto di Rifkin è ben più articolato e suggestivo. L'accademico americano spiega che, negli anni a venire, entrambe le aree in cui è diviso il sistema economico, settore pubblico e settore privato, non saranno più in grado di soddisfare le esigenze delle persone: il lavoro e un salario. Se il settore privato sarà colpito dalla disoccupazione tecnologica e non potrà più offrire posti di lavoro, il settore pubblico non potrà sopperire il vuoto lasciato dal primo, sia perché troppo grande, sia perché è giunto al punto da non poter più spendere in deficit, sia perché il ruolo del governo centrale è stato e continuerà ad essere eroso dalla globalizzazione. In un simile scenario, si farà spazio il terzo settore, quello delle onlus, le organizzazioni senza scopo di lucro. La loro figura sarà al centro di nuovo contratto sociale, alla base del quale vi sarà un ripensamento dello spirito comunitario da parte delle masse di diseredati. Le comunità locali garantiranno una solida rete di protezione sociale e funzioneranno da antidoto alla criminalità e ai disordini sociali che molto probabilmente esploderanno a seguito della crescita della disoccupazione. Sarà compito dello stato, invece, assicurare un “salario sociale”, ossia un reddito minimo garantito, a chi perde il lavoro, a patto che si impegni a prestare il suo servizio nell'ambito del terzo settore o frequenti un corso di riqualificazione professionale.
Pensando agli effetti della disoccupazione tecnologica nel futuro, Brynjolfsson e McAfee si immaginano una sorta di “Atene digitale”. Tutti i cittadini dell'Atene antica, spiegano i due ricercatori del Mit di Boston, conducevano una vita agiata, partecipando democraticamente alla politica cittadina, creando arte e dedicandosi ai loro interessi, dal momento che disponevano di un grande massa di schiavi che svolgevano tutti i lavori più duri e soddisfacevano tutti i loro bisogni. Allo stesso modo, nella visione dei due americani, un giorno l'umanità potrà contare su macchine-schiavo che libereranno l'uomo dal lavoro. Ma c'è chi pensa che l'uomo non sia adatto ad alzarsi la mattina e non aver nessun compito da svolgere. Il premio Nobel per la letteratura Eugenio Montale, nella raccolta di saggi Auto da fé del 1966, prevedette che in futuro l'automazione avrebbe lasciato l'uomo con un sacco di tempo libero. «Perché si lavora?», si chiedeva Montale, «certo per produrre cose e servizi utili alla società umana, ma anche e sopratutto, per accrescere i bisogni dell’uomo, cioè per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo», perché «ammazzare il tempo è il problema sempre più preoccupante che si presenta all’uomo d’oggi di domani». Primo Levi, in un'intervista rilasciata a Philip Roth nel 1986 per il New York Times Book Review, affermò: «sono convinto che l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine, e che l’ozio, o il lavoro senza scopo provoca sofferenza e atrofia. […] Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale». Voltaire compendiò la sua opinione a riguardo nel seguente adagio: «il lavoro allontana tre grandi mali: la noia, il vizio ed il bisogno».
Insomma, il futuro che scorgiamo è in chiaroscuro: se da una parte la preoccupazione di non trovare lavoro sarà sempre più presente nelle nostre vite, dall'altra potrebbe avverarsi una vera e propria utopia, anelata da molti secoli a questa parte: liberarsi dal lavoro e godersi la vita. Per andare verso lo scenario più fausto, occorre rivoluzionare l'organizzazione del nostro sistema economico ma soprattutto cambiare il paradigma culturale dell'occupazione. Il lavoro deve uscire dalle logiche del mercato e abbracciare una concezione più legata allo sviluppo sociale. Il lavoro non deve essere un fine, ma il mezzo attraverso il quale l'individuo contribuisce attivamente al benessere della collettività.

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