lunedì 9 ottobre 2017

Guida al Referendum per l'Autonomia in Lombardia e Veneto



Non abbiamo ancora finito di parlare del referendum in Catalogna che dobbiamo già cominciare ad occuparci di quello in Lombardia e Veneto del prossimo 22 ottobre. A scanso di equivoci, bisogna dire che i due casi sono molto diversi: quello in Catalogna è stato un referendum illegale (almeno in base alla legge spagnola) che mirava all’indipendenza per la regione di Barcellona, mentre i referendum consultivi di Lombardia e Veneto sono perfettamente legali e aspirano a garantire alle due regioni del Nord Italia più autonomia dallo stato centrale, in termini di aree di competenza ma soprattutto in termini di gestione delle risorse fiscali.
I quesiti che saranno sottoposti agli elettori delle due regioni sono molto diversi tra loro ma la sostanza è la stessa. In caso di vittoria del sì, le giunte regionali invocheranno l’attivazione dell’articolo 116 della Costituzione italiana. Questo articolo è stato modificato con la riforma del 2001, che ha inserito la possibilità per le regioni che lo desiderano di aprire una trattativa con lo stato centrale per ottenere più poteri, in modo da avvicinarsi (senza comunque eguagliare) le regioni a statuto speciale.
L’articolo 116 rimanda ad un elenco di materie (dal commercio alla salute, dal trasporto pubblico all’ambiente, dall’istruzione alle banche) che al momento sono quasi tutte di competenza condivisa fra lo stato e le regioni e che possono essere in teoria trasferite in toto a queste ultime. Ma la pratica può essere diversa dalla teoria perché lo stato centrale non è affatto tenuto a soddisfare le richieste delle regioni e non è per nulla detto che il negoziato vada in porto. Tanto più che questo tentativo è già stato fatto nel 2007 dalla Lombardia ma non portò da nessuna parte, benché dall’anno successivo ci fosse un governo di centrodestra sia a Roma che a Milano. Per questo motivo, ora le due regioni del Nord tentano la strada del referendum, in modo da inviare un forte messaggio politico agli interlocutori romani.

Le ragioni del referendum

Veniamo quindi alle motivazioni dietro alla scelta di indire il referendum e alle critiche a riguardo. Il referendum è stato fortemente voluto dai governatori leghisti Maroni e Zaia, anche per marcare la distanza con il nuovo corso nazional-sovranista della Lega di Salvini. Il loro intento è quello di tenere le tasse pagate dai cittadini lombardi e veneti il più possibile all’interno delle regioni. In particolare, la campagna referendaria del sì gira attorno ad un dato, il cosiddetto residuo fiscale. Il residuo fiscale è la differenza tra le tasse degli abitanti di una regione che vanno allo stato e quello che torna indietro in termini di spesa. Lo si può interpretare come una somma che viene trasferita dalle regioni più ricche a quelle più povere. Secondo un rapporto della Cgia di Mestre del 2015 (che si riferisce a dati del 2012 ma che si suppone non siano cambiati più di tanto), il residuo fiscale della Lombardia ammonta a 53,9 miliardi di euro (circa 5.500 euro ad abitante), mentre quello del Veneto corrisponde a 18,2 miliardi (3.700 e rotti euro a persona). Queste cifre corrispondono a circa il 15% del Pil lombardo e al 12% di quello veneto. Il presidente della Lombardia Maroni ha affermato che con questo referendum non mira tanto al trasferimento di competenze, quanto al mantenimento di almeno la metà del residuo fiscale all’interno dei confini regionali. A chi ribadisce l’importanza della solidarietà nazionale, i sostenitori del sì rispondo che un Nord più forte porterebbe benefici a tutta l’Italia. Il governatore lombardo ha detto al Foglio che “far ‘correre’ il Nord, non può che giovare anche al resto del Paese. Se la ‘locomotiva’ continua a viaggiare a scartamento ridotto, gli altri ‘vagoni’ di certo non se ne avvantaggiano. E poi bisogna smettere di presentare l’autonomia come un ‘danno’ o un ‘pericolo’ per il Sud. E’ ormai chiaro a tutti che il sistema centralista dell’assistenzialismo produce solo danni”. 

Le ragioni dei contrari

Non sono mancate però voci critiche verso il referendum. I maggiormente contrari riaffermano l’importanza della solidarietà nazionale, sia dal punto di vista etico sia da quello economico. Infatti, se l’economia meridionale fosse privata dei fondi che ottiene oggi, i consumatori del Sud avrebbero meno soldi per acquistare i prodotti provenienti dal Nord, creando problemi anche per le imprese settentrionali. In altre parole, il Nord è così prospero anche perché è parte dell’Italia. Negli anni molti investimenti pubblici sono arrivati nelle regioni settentrionali perché si sapeva che avrebbero beneficiato l’intero paese. 
Altri critici affermano che si tratta di un referendum inutile e costoso: le cifre precise non si conoscono ma si parla di qualche decina di milioni di euro per ciascuna regione. In Lombardia per esempio, 3 milioni di euro sono stati spesi soltanto per la campagna promozionale. L’inutilità invece dipenderebbe dal fatto che non è necessario un referendum per avviare la procedura prevista dall’articolo 116 della Costituzione. Infatti, lo scorso agosto la giunta dell’Emilia-Romagna ha fatto partire lo stesso iter senza passare da un referendum, ma concordandolo con istituzioni e associazioni locali, sindacati e imprese.
Infine, alcuni critici fanno notare come le regioni negli ultimi anni non abbiano dato un’ottima prova di sé nel gestire i fondi pubblici, a partire dagli scandali dei rimborsi ai gruppi politici che hanno coinvolto quasi tutti i consigli regionali del paese, per arrivare alle opere pubbliche come la Brebemi e la Pedemontana in Lombardia che hanno i conti tutt’altro che in ordine.

Le posizioni dei partiti

Vediamo ora come si schierano le varie forze politiche riguardo al referendum.
Il centrodestra è per il sì, specie la Lega Nord che ha fortemente voluto questo voto. L’unico partito del centrodestra con una posizione non chiara è Fratelli d’Italia, la cui leader Giorgia Meloni ha invitato all’astensione nonostante il suo partito abbiamo votato a favore della consultazione in consiglio regionale.
Anche il Movimento 5 Stelle è a favore del sì. In Lombardia i pentastellati sono anche gli autori del quesito su cui si esprimeranno gli elettori.
Nel centrosinistra le posizioni sono più variegate. Alla sinistra del Pd, solo Rifondazione comunista è per il no, mentre Articolo 1 (Mdp) è per l’astensione. Ma è nel Pd che le cose si fanno più complicate: mentre il Partito Democratico del Veneto voterà sì, quello lombardo darà libertà di voto, dato che è diviso al suo interno: mentre i suoi principali dirigenti propendono per l’astensione, i sindaci Pd dei capoluoghi lombardi (tranne il primo cittadino di Pavia) voteranno sì, a partire da Beppe Sala e Giorgio Gori.

Il voto elettronico in Lombardia

C’è un ultimo aspetto che ci rimane da trattare: il fatto che per la prima volta in Italia si voterà con il voto elettronico. Ciò accadrà solo in Lombardia, mentre in Veneto si è optato per il metodo tradizionale con scheda e matita. Innanzitutto, c’è da chiarire che voto elettronico non significa che ognuno possa votare a casa propria dal pc o dallo smartphone, ma bisognerà comunque recarsi alle urne dove, invece della tradizionale scheda cartacea, sarà possibile esprimere la propria preferenza su una specie di tablet.
La regione ne ha acquistati 24 mila per le 9200 sezioni elettorali lombarde per una spesa totale (che comprende anche il software e i tecnici che supporteranno il personale dei seggi) di 23 milioni di euro. Dal momento che molti hanno protestato per l’ingente costo di questo sistema di voto, il presidente lombardo Maroni ha dichiarato che, una volta concluso il referendum, i tablet saranno lasciati in comodato gratuito alle scuole per le attività didattiche. Tuttavia molti rimangono scettici a riguardo, dato che i tablet che saranno usati per il voto hanno caratteristiche molto diverse da quelle dei normali tablet a cui siamo abituati.
Alcune proteste si sono sollevate anche sulla società che ha vinto l’appalto, la Smartmatic, di proprietà venezuelana. Oltre ad essere sospettata di avere legami non chiari con il governo del paese sudamericano, i suoi sistemi sono stati usati perlopiù in paesi in via di sviluppo. Alcune democrazie avanzate li hanno utilizzati soltanto per elezioni di carattere locale, come nella regione belga delle Fiandre nel 2012. In seguito alla consultazione, il governo fiammingo si è rifiutato di pagare una parte del compenso dovuto alla società, per i quasi 2000 incidenti che si sono verificati durante le operazioni di voto, come alcuni casi in cui gli elettori hanno potuto votare due volte premendo velocemente lo schermo. C’è da aspettarsi però che questi problemi siano stati risolti.

Informazioni pratiche

Infine, ecco alcune informazioni pratiche sul referendum.
I seggi saranno aperti domenica 22 ottobre, dalle 7 alle 23. In contemporanea, nella provincia di Belluno, si voterà anche per una maggiore autonomia provinciale.
Per votare, è necessario portare con sé un documento di riconoscimento valido. Non serve invece la tessera elettorale, se non per sapere la sezione in cui recarsi.
Possono votare tutti i cittadini italiani residenti nelle due regioni. Non è previsto né il voto all’estero o fuori sede, né un rimborso per chi vuole tornare a votare.
Formalmente, entrambi i referendum sono consultivi. In Lombardia non è previsto nessun quorum (cioè un numero minimo di votanti), mentre in Veneto se non si raggiungerà una partecipazione di almeno il 50% degli aventi diritto, il consiglio regionale non sarà tenuto a prendere in considerazione la votazione.

lunedì 5 giugno 2017

Guida alle elezioni comunali 2017


Domenica 11 giugno, dalle 7 alle 23, saranno aperti i seggi elettorali per le elezioni comunali. Si vota in 1005 comuni (tra cui 25 capoluoghi di provincia), con più di 9 milioni di cittadini chiamati ad esprimersi. Gli abitanti di Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige sono già andati alle urne lo scorso 7 maggio. In ogni comune possono votare tutti i residenti maggiorenni che siano cittadini italiani o cittadini di un altro stato dell’Unione Europea (questi ultimi solo se ne hanno fatto domanda a tempo debito). L’eventuale turno di ballottaggio per i centri sopra i 15 mila abitanti si terrà domenica 25 giugno, sempre dalle 7 alle 23.

Tra le città in cui si vota ricordiamo Verona, Padova, Piacenza, Monza, Genova, Parma, L’Aquila, Taranto e Palermo. Il comune più piccolo chiamato alle urne è Blello, nella bergamasca, con i suoi 76 abitanti. Quello più grande è Palermo con 657 mila residenti. In sette comuni le elezioni sono state rinviate perché non si è presentata nessuna lista.

COME SI VOTA
Attenzione! Queste regole valgono per le regioni a statuto ordinario. Ci potrebbero essere alcune differenze in quelle a statuto speciale.

Comuni oltre i 15.000 abitanti (10.000 in Sicilia)
Si vota su un’unica scheda, dove saranno elencati tutti i candidati sindaco e, a fianco di ciascuno, le liste che lo supportano. È possibile votare in tre modi:
  • tracciando un segno solo sul nome del candidato sindaco: in questo modo, si vota soltanto lui e nessuna delle liste collegate;
  • tracciando un segno solo sul simbolo di una lista: in questo modo, si vota sia la lista che il candidato sindaco a cui è collegata;
  • tracciando un segno sia su una lista che su un candidato sindaco non collegato ad essa (è il cosiddetto “voto disgiunto“).

Se si traccia un segno su una lista è possibile esprimere una o due preferenze scrivendo il cognome del candidato consigliere di cui si vuole agevolare l’elezione. Se però le preferenze che si vogliono assegnare sono due, devono essere di sesso diverso.

Viene eletto sindaco il candidato che raggiunge il 50% più uno dei voti validi. Se questa soglia non viene raggiunta, si terrà un secondo turno di ballottaggio, a cui accederanno i due candidati che hanno ottenuto più voti nel primo turno e da cui uscirà il vincitore. Tra i due turni, le liste il cui candidato sindaco è stato estromesso dalla corsa possono decidere di apparentarsi ad uno dei due candidati che si sfideranno al ballottaggio.

I seggi in consiglio comunale vengono assegnati in modo proporzionale (con il medoto d’Hondt). Alle liste collegate al candidato sindaco vincente viene assegnato almeno il 60% dei seggi (con un turno solo, c’è la condizione che esse devono aver raggiunto almeno il 40% dei voti validi).

Comuni sotto i 15.000 abitanti
Si vota su un’unica scheda, dove saranno elencati tutti i candidati sindaco e, a fianco di ciascuno, la lista che lo supporta. Si vota tracciando un segno sul candidato sindaco che si favorisce. In questo modo, verrà votata anche la lista che lo accompagna. È possibile esprimere una preferenza, scrivendo il candidato consigliere di cui si vuole agevolare l’elezione. Nei comuni sopra i 5.000 abitanti, le preferenze possono essere due, purché di sesso diverso.

Viene eletto il candidato sindaco che ha ottenuto il maggior numero di voti (è previsto il ballottaggio solo in caso di parità fra le liste più votate). Alla lista vincitrice spettano i due terzi dei seggi in consiglio comunale, mentre i posti restanti vengono distribuiti in modo proporzionale fra le altre formazioni.

Se in un comune si dovesse presentare una lista soltanto, le elezioni saranno valide solo nel caso che si rechino ai seggi il 50% più uno degli aventi diritto al voto (e che almeno la maggioranza di essi esprima un voto valido). In caso contrario, il comune verrà commissariato e si tornerà alle urne nel successivo turno elettorale.

lunedì 29 maggio 2017

Deflazione: perché è un problema se scendono i prezzi



Secondo le stime preliminari dell’Istat, il 2016 è stato il primo anno dal 1959 in cui l’Italia si è trovata in deflazione. Per la precisione, dello 0,1% rispetto all’anno precedente. Ma cosa significa deflazione?

Cosa significa

La deflazione è la diminuzione del livello generale dei prezzi di beni e servizi. Con la deflazione, il valore della moneta aumenta: con un euro si possono comprare più cose di quanto si poteva fare prima.
Capita più spesso però di sentire parlare dell’opposto, cioè dell’inflazione, che consiste invece nell’aumento dei prezzi e quindi nella perdita di valore della moneta. A scuola abbiamo studiato l’iperinflazione che si verificò in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali, quando dalla sera alla mattina i prezzi raddoppiavano o triplicavano. Qualcosa di simile sta accadendo oggi in Venezuela, dove i soldi invece di essere contati cominciano ad essere pesati.
Lo scenario di una iperinflazione è sicuramente negativo, perché significa che la moneta non viene più considerata un mezzo sicuro per comprare e vendere le cose. Tuttavia, anche la deflazione può creare dei problemi.

Le conseguenze

Intuitivamente, se i prezzi calano, potremmo pensare che sia un bene per l’economia come lo è sicuramente per i nostri portafogli. Ma non è così.
Oggi i prezzi scendono perché la gente fa meno acquisti a causa della crisi o perché vuole risparmiare, essendo preoccupata per il proprio futuro. Siccome c’è meno domanda sul mercato, le imprese abbassano i prezzi per spingere i consumatori ad acquistare i loro beni e servizi. I consumatori però, aspettandosi che i prezzi possano scendere ancora, potrebbero decidere di procrastinare le spese, almeno quelle più importanti. Questo non fa altro che ridurre ulteriormente la domanda e di conseguenza i prezzi, rischiando di innestare una spirale negativa di recessione e deflazione.
Inoltre le imprese, dal momento che vendono meno e i loro ricavi sono inferiori, tenderanno a ridurre i costi di produzione. Ciò significa che acquisteranno meno materie prime, faranno meno investimenti per migliorare e allargare la produzione, ma soprattutto assumeranno meno e ridurranno gli stipendi.
Ma non è finita qui. Sul versante finanziario, se la moneta acquista valore con la deflazione, i debitori saranno penalizzati, dato che il debito rimane lo stesso mentre il reddito a disposizione per ripagarlo si restringe. Per esempio, le famiglie con un mutuo si ritroveranno a farvi fronte con stipendi più bassi. La stessa cosa vale per il debitore più grande di tutti, lo stato, che dovrà pagare gli interessi sul nostro enorme debito pubblico con minori entrate fiscali.
Insomma, ci troviamo di fronte ad un cane che si morde la coda: più i prezzi si riducono più l’economia va male, più l’economia va male più i prezzi si riducono.

Le soluzioni

Lo stato può aiutare l’economia a riprendersi con tre strumenti: con la politica monetaria, con quella fiscale e con la spesa pubblica.
La politica monetaria è gestita dalle banche centrali, che godono di una certa autonomia rispetto ai governi e hanno il compito di controllare la quantità di moneta in circolazione. In caso di deflazione, ci si aspetta che la banca centrale immetta liquidità nel mercato finanziario. Una maggiore liquidità implica una perdita di valore della moneta e quindi più inflazione.
Negli ultimi anni la Bce (Banca Centrale Europea), seguendo l’esempio di altre banche centrali del mondo, ha iniettato liquidità nel mercato, anche se questo ha dato solo una spinta limitata alla crescita economica e all’inflazione.
L’altro soggetto che può fare qualcosa contro la deflazione è il governo, con la doppia leva della politica fiscale, cioè abbassando la tassazione per favorire i consumi da parte delle famiglie, e dell’intervento diretto nell’economia, investendo denaro in settori chiave per dare lavoro a chi lo ha perso. Tuttavia, lo stato italiano è troppo indebitato per potersi permettere di spendere e spandere, quindi può fare poco.

C’è da preoccuparsi?

Abbiamo parlato delle gravi conseguenze che la deflazione può scatenare e di come le armi dello stato per combatterla siano spuntate. Dobbiamo quindi strapparci i capelli? Forse non ancora. È vero che la nostra economia è ferma ormai da qualche anno però, come abbiamo detto, la deflazione registrata nel 2016 è molto bassa: 0,1%. Peraltro, ciò è dovuto principalmente al prezzo del petrolio, il cui calo ha abbassato tutta la media.
Per il prossimo futuro, è previsto un ritorno dell’inflazione, seppur di pochi decimali. Gli economisti considerano ottimale un’inflazione vicina ma inferiore al 2%. Se questo obiettivo non sarà presto raggiunto e l’economia continuerà a sperimentare una bassa crescita e una bassa inflazione per molto tempo, quello sarà il momento di iniziare a preoccuparsi seriamente.

venerdì 21 aprile 2017

Primarie Pd


La parte scritta da me dell'ultimo video di Muovere Le Idee

Il prossimo 30 aprile gli elettori del Partito Democratico sono chiamati a scegliere il segretario – cioè il leader – del partito. Sono tre i candidati che in questi giorni stanno battendo il territorio nazionale per portare avanti le loro visioni del partito e del paese. In questo video conosceremo meglio le loro storie e le loro idee, ma prima facciamo un passo indietro.

I candidati

Le primarie del prossimo 30 aprile fanno parte di un processo più lungo e complesso già iniziato nelle scorse settimane, cioè il congresso, che è quel momento della vita di un partito in cui si sceglie la sua linea politica e da chi deve essere guidato. Le regole congressuali prevedono che gli iscritti al partito abbiano potuto votare già tra la fine di marzo e l’inizio di aprile e questi sono i risultati: dei 450 mila iscritti, hanno votato in 266 mila, segnando un 59% di affluenza. Matteo Renzi ha ottenuto il risultato più alto, raccogliendo due terzi delle preferenze (66,7%), seguito da Andrea Orlando, scelto da un votante su quattro (25,3%), e da Michele Emiliano con l’8%. Ma conosciamo meglio i tre candidati.

Matteo Renzi è sicuramente il più noto dei tre. Nato a Firenze nel 1975, muove i primi passi in politica nella Margherita, diventa prima presidente di provincia e poi sindaco del capoluogo toscano, viene eletto segretario nazionale del Pd con le primarie del dicembre 2013 e viene infine nominato presidente del consiglio all'inizio del 2014.

Andrea Orlando è nato nel 1969 a La Spezia. Come Renzi, inizia la sua carriera politica fin da giovane, con cariche sia nel partito, nel suo caso il Pci e poi Pds, sia in consiglio comunale. Parlamentare dal 2006, è ministro dell'ambiente nel Governo Letta e ministro della giustizia con Renzi e nell'attuale Governo Gentiloni.

Michele Emiliano è nato a Bari nel 1959. Dopo alcuni anni da avvocato entra in magistratura e da pubblico ministero si occupa di lotta alla mafia in Sicilia e in Puglia, vivendo per anni sotto scorta. Nel 2004, mettendosi in aspettativa dalla magistratura, diventa sindaco di Bari. Fa due mandati, finiti i quali viene eletto presidente della Regione Puglia, carica che ricopre tutt'ora.

I programmi

Candidandosi alla guida del Pd, ogni aspirante segretario ha presentato una mozione congressuale, che illustra le sue proposte per il partito e per il paese. Naturalmente le diverse mozioni non sono così distanti fra loro, dato che stiamo parlando di persone dalla stessa appartenenza politica, ma alcune differenze si possono trovare.

L'unico che abbiamo già visto all'opera sia come segretario del Pd sia come premier è Matteo Renzi, quindi un po' sappiamo già cosa aspettarci da lui. C'è da dire però che, dopo la sconfitta del referendum, ha leggermente modificato il suo messaggio tentando di mostrarsi consapevole del disagio sociale che, secondo molti osservatori, ha determinato quel risultato. In particolare, ha cercato di venire incontro agli elettori del Movimento 5 Stelle proponendo, in risposta al reddito di cittadinanza dei grillini, quello che ha chiamato un lavoro di cittadinanza, cioè un miglioramento delle cosiddette politiche attive del lavoro, ovvero di quelle misure in grado di aiutare chi perde il lavoro a trovarne un altro, magari dopo un periodo di formazione o riqualificazione. Renzi propone poi una riduzione del cuneo fiscale e delle imposte sul reddito, in continuità con quanto fatto durante i mille giorni al governo.
Sull'Europa, l'ex premier si spende per una maggiore dimensione politica dell'Unione, rafforzando l'integrazione specie nel campo della difesa, scegliendo con le primarie il candidato del Partito Socialista Europeo e chiedendo l'elezione diretta da parte dei cittadini del presidente della Commissione. Sul lato delle politiche, Renzi chiede che gli investimenti in sicurezza, ricerca e cultura vengano esclusi dal calcolo del deficit e auspica una gestione comune dei migranti.
Sulla legge elettorale, l’ex premier chiede che rispetti i principi del Mattarellum e dell’Italicum: dalle elezioni deve uscire un vincitore, senza che sia necessario cercare alleanze in parlamento dopo le elezioni.
Per quanto riguarda il Pd, secondo Renzi dovrebbe essere un partito che va ad elezioni da solo e non all’interno di coalizioni, dove il segretario è anche candidato premier e dove ci deve essere una partecipazione dal basso ma la leadership deve avere una certa autonomia.
Renzi infine si propone come l’unico che può avanzare una proposta riformistica in contrapposizione con il populismo dilagante.

La mozione di Orlando è quella in cui compare più volte la parola “sinistra” e non a caso: dei tre candidati, è sicuramente il più vicino alla cultura politica del Pd pre-Renzi e degli scissionisti di Mdp. Contro il populismo e in difesa della democrazia, l’attuale ministro della giustizia invoca una maggiore attenzione ai bisogni delle persone e una lotta alle disuguaglianze sociali. In questa direzione va anche la principale proposta sull’Europa: la creazione di un pilastro sociale, basato su un’assicurazione europea contro la disoccupazione. Orlando propone poi di scorporare gli investimenti strategici dal calcolo del deficit.
Sulle tasse chiede di trasferire l’imposizione fiscale dal lavoro al reddito, abbassando sì le imposte ma perseguendo i grandi evasori e creando una tassa per le società di Internet che spesso pagano molto poco. Come Renzi, è contrario ad un reddito minimo garantito ma è favorevole a rafforzare il reddito di inclusione sociale e l’assistenza dello stato nella ricerca del lavoro. Al fine di rilanciare l’economia, Orlando propone di puntare sugli investimenti pubblici e su un ruolo strategico dello stato, in modo da arrivare ad una piena occupazione di qualità.
Sulla legge elettorale, dice che è inutile continuare a spingere per il Mattarellum perché gli altri non lo voteranno mai, propone invece un proporzionale con un premio di governabilità al partito che arriva primo, oltre a ridare la possibilità ai cittadini di scegliersi i propri parlamentari all’interno dei collegi uninominali.
Orlando ha un’idea del partito molto diversa da quella di Renzi: secondo lui, il ruolo del Pd è quello di mediare tra le istanze della società e trasformarle in proposte politiche, si scaglia contro l’uomo solo al comando e al partito trasformato in mero comitato elettorale, è contrario alla sovrapposizione tra la carica di segretario e quella di premier. Per lui, il Pd deve essere il perno di una più ampia coalizione di centro-sinistra.

Fra i tre candidati, Emiliano è quello più critico nei confronti di Renzi e quello che strizza di più l’occhio ai 5 stelle, non ricambiato tuttavia: per esempio, quando è stato eletto governatore della regione Puglia, ha cercato di nominare tre assessori della propria giunta scegliendoli fra i grillini, ma ha ricevuto un secco rifiuto.
In campo economico, la sua proposta si traduce in una riduzione delle imposte sul reddito delle fasce più basse, ma si dice contrario alla logica dei bonus portata avanti da Renzi. Dell’operato dell’ex premier, critica anche la riforma della scuola e l’adozione del Jobs Act, chiedendo una reintroduzione dell’articolo 18. Come Orlando, propone una webtax ma, a differenza sua, avanza anche l’idea di un reddito minimo garantito. Per quanto riguarda l’Europa, anche lui critica le politiche d’austerità e invoca una maggiore attenzione alla crescita.
Nel suo programma non può mancare un particolare accento sugli investimenti per il meridione. Inoltre Emiliano punta molto sulla tutela dell’ambiente e lo si è visto anche negli ultimi mesi con la sua opposizione alle trivelle in mare e all’oleodotto Tap.
Per quanto riguarda il partito, anche Emiliano si dice contrario alla logica dell’uomo solo al comando, rilancia una maggiore partecipazione dei territori e avanza la proposta di una piattaforma online per la consultazione degli iscritti. Se vincesse, promette di non candidarsi premier ma intende rimanere presidente della sua regione. Inoltre, ha dichiarato di essere contrario ad alleanze post voto con Forza Italia, mentre mostra un’apertura verso il Movimento 5 Stelle.

Il voto

Le primarie si terranno domenica 30 aprile, dalle 8 alle 20. È possibile trovare l’indirizzo del proprio seggio sul sito del Pd. Può votare chiunque, anche i non iscritti al partito, ma è necessario sottoscrivere una dichiarazione in cui si afferma di essere elettori del Pd e di riconoscersi nella sua proposta politica. Per esprimere il proprio voto è necessario versare due euro e presentarsi al seggio muniti di un documento di riconoscimento e della tessera elettorale.
La domenica successiva alle primarie sarà convocata l’Assemblea nazionale del partito che proclamerà vincitore il primo arrivato, a patto che abbia raggiunto almeno il 50% più uno dei voti. Se nessuno dei candidati avrà raggiunto quella soglia, spetterà all’Assemblea scegliere il segretario fra i due che avranno raccolto più preferenze.

martedì 11 aprile 2017

Le ragioni di chi vuole più Europa


Il mio reportage per Muovere Le Idee dalla Marcia per l'Europa del 25 marzo a Roma.

Sono andato a chiedere agli europeisti perché, in un momento in cui tutti se la prendono con l'Europa, loro vogliono farne un'unione ancora più forte.

giovedì 16 marzo 2017

Quale futuro per l'Unione Europea?



Nelle prossime settimane si parlerà molto di Europa. Il 25 marzo si celebrerà infatti il 60° anniversario del Trattato di Roma che istituì quella che sarebbe diventata l’Unione Europea. Quel giorno i leader dei 27 stati membri (Regno Unito escluso, naturalmente) si riuniranno a Roma per rilanciare il progetto europeo. E fin qui tutti d’accordo. È quando si arriva al come che sorgono i problemi.

Le strade che l’Europa potrà prendere nei prossimi anni sono state semplificate dal Libro Bianco pubblicato dalla Commissione Europea in 5 possibili scenari.


Scenario 1 - “Avanti così”.
Nessun modifica delle regole europee: le istituzioni sovranazionali continueranno ad occuparsi delle competenze a loro riservate e per risolvere tutti i nuovi problemi che vediamo ora e che sorgeranno in futuro ci si affiderà alla buona volontà degli stati di trovare un accordo fra di loro, se riusciranno a farlo. Questa opzione, secondo VoteWatch, è vista di buon occhio dai paesi nordici, come la Svezia e la Danimarca.

Scenario 2 - “Solo il mercato unico”.
L’UE riduce progressivamente il suo campo d’azione al suo core business, ovvero il libero movimento di beni, servizi, capitali e lavoratori al suo interno. Quindi meno di quanto fa oggi. Questo scenario, l’unico escluso espressamente dal presidente della Commissione Juncker, potrebbe essere quello più vicino ai partiti euroscettici e dal Regno Unito in uscita, se non fosse per il libero movimento delle persone, la cui eliminazione sta molto a cuore a questi soggetti.


Scenario 3 - “Chi vuole di più fa di più”.
È l’Europa a più velocità di cui tanto si parla: gruppi di paesi all’interno dell’UE che sono d’accordo su una maggiore integrazione in un determinato campo possono andare avanti senza aspettare che anche tutti gli altri siano d’accordo. Questo permetterebbe per esempio ai paesi dell’Euro di istituire un ministro dell’economia unico e armonizzare i loro sistemi fiscali oppure a chi ci sta di creare una maggiore collaborazione militare. Questo scenario è quello che è stato rilanciato nell’incontro di Versailles dai leader di Germania, Francia, Italia e Spagna, ma viene avversato dai paesi dell’Est (specie dal cosiddetto Gruppo di Visegrád, composto da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che temono di essere lasciati indietro. Comunque, qualcuno fa notare che un’Europa a più velocità esiste già.


Scenario 4 - “Fare meno in modo più efficiente”.
Come nel secondo scenario, il raggio d’azione dell’UE si restringe, ma nei campi in cui continua ad avere un ruolo, i poteri dell’Unione vengono rafforzati in modo da rispondere meglio ad alcuni problemi. Questa opzione è portata avanti dal Gruppo di Visegrád che da una parte non vuole un’Europa sociale e non vuole che Bruxelles si impicci nelle sue faccende domestiche (in questi mesi c’è frizione con Polonia e Ungheria, i cui governi stanno approvando riforme che in Europa vengono giudicate illiberali), dall’altra vorrebbe una maggiore collaborazione in campo militare.

Scenario 5 - “Fare molto di più insieme”.
È l’opzione preferita dagli Europeisti più ferventi e quella che più difficilmente sarà percorsa in questi anni di euroscetticismo dilagante. Essa prevede di perseguire il principio sancito dai trattati della “ever closer union”, l’unione sempre più stretta tra i paesi europei, e di spingere sul pedale della maggiore integrazione, mettendo in comune nuovi settori. Per ribadirlo, alcune organizzazioni europeiste hanno organizzato una marcia per l’Europa a Roma proprio il 25 marzo, in concomitanza con il vertice dei capi di stato e di governo.

domenica 12 marzo 2017

Il pericolo ingovernabilità

Nella politica italiana è il momento dei riposizionamenti: la scissione del Pd con la nascita del Mdp, Sinistra Italiana che vede già dei fuoriusciti prima ancora di celebrare il congresso fondativo, la maretta nel centrodestra (se si può ancora chiamare così) sulle primarie e il leader. 

Il tempismo è strano però. Di solito ci si riposiziona quando si sa con quale legge elettorale si va a votare: c’è una legge che premia i grandi partiti ->; ci si fonde; c’è una legge che favorisce le coalizioni ->; si cerca una coalizione; c’è una legge sostanzialmente proporzionale ->; nascono una miriade di partiti, ognuno dei quali cerca di definire il meglio possibile una propria identità. Quest’ultimo è lo scenario a cui assistiamo.

Cosa significa questo? Che nessuno crede che la legge elettorale uscita dalla sentenza della Consulta verrà cambiata? In effetti, l’arrivo in aula alla Camera della discussione è di nuovo slittato a fine marzo. Oppure significa che, anche se dovesse essere cambiata la legge, si terrà comunque un proporzionale?

La risposta a queste domande è importante, perché le simulazioni ci dicono che, con la legge attuale, non ci sarà nessun governo dopo le prossime elezioni. L’unica maggioranza possibile dovrà mettere sotto lo stesso tetto Pd e 5 Stelle e sappiamo quanto questo è altamente improbabile.

Se non vogliamo essere condannati all’ingovernabilità, ci sono due possibili soluzioni: o cambiano i partiti (e il loro rifiuto di dialogare) o cambia radicalmente la legge elettorale.

(metà gennaio)

(fine febbraio)

mercoledì 22 febbraio 2017

I motivi del populismo



Da alcuni anni ormai la politica sta cambiando. In molti paesi occidentali guadagnano sempre più consensi idee, partiti e candidati molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto finora. Nel 2016 abbiamo visto i primi segni tangibili di questa trasformazione: il voto sulla Brexit e l'elezione di Donald Trump. Due esiti che apparivano fantascienza fino a pochi mesi prima.
Schiere di osservatori, politici e giornalisti hanno tentato di trovare una spiegazione all'emergere di queste forze, spesso definite populiste. In molti hanno puntato il dito contro le bufale e le notizie false diffuse sul web da parte di siti più o meno vicini a questi movimenti. Si è arrivati a parlare di politica della post-verità, in cui i fatti oggettivi passano in secondo piano rispetto alle emozioni e alle convinzioni personali. Le bufale hanno avuto certamente un ruolo, ma l'ascesa del populismo sembra essere spiegata meglio con il crescente risentimento per le élite e per una classe dirigente incapace di affrontare la crisi e il lento ma costante declino delle economie occidentali. Problemi come la globalizzazione e l'immigrazione sono molto sentiti specialmente dalla classe media, che sta vedendo i propri salari restringersi e il lavoro diventare sempre più precario. È proprio la spiegazione economica al populismo che vogliamo approfondire in questo video.


Iniziamo il nostro ragionamento partendo da un libro: Postcapitalismo, scritto dal giornalista inglese del Guardian Paul Mason. In questa sede però, la tesi di fondo sostenuta da Mason non ci interessa. Ciò che ci importa è la sua analisi sull'evoluzione dell'economia negli ultimi secoli.
È dato per assodato dagli studiosi che l'economia si muova per cicli della durata di pochi anni: periodi di espansione e di crescita seguiti da periodi di depressione e crisi. È una teoria più minoritaria invece quella per cui questi cicli brevi si inseriscano in cicli più lunghi, della durata di 50-70 anni. Questi ultimi si sviluppano in forma di onde, le cosiddette Onde di Kondrat'ev, dal nome dell'economista russo Nicolaj Kondrat'ev che le ha ipotizzate per primo. Mason mescola la teoria delle onde lunghe con alcuni elementi della tradizione marxista, spiegando che un'onda inizia dopo un periodo turbolento con guerre e rivoluzioni, in cui i capitali si sono accumulati nel settore finanziario e sono state inventate nuove tecnologie che però hanno avuto difficoltà ad affermarsi fino a quel momento. Con l'inizio della fasce ascendente dell'onda, i capitali si riversano nell'economia reale e nascono nuovi modelli di impresa basati proprio su quelle innovazioni incubate nel periodo precedente. Inizia così una fase di prosperità e crescita, in cui risulta accettabile redistribuire la ricchezza verso le fasce più povere della popolazione. Arriva però un momento in cui tutto ciò si interrompe: all'improvviso ci si accorge che le aspettative per un futuro florido come il presente possono essere sbagliate, ci si rende conto che la crescita attesa in molti settori non si verificherà e che i capitali investiti troppo alla leggera non saranno più ripagati. Ci si avvia quindi verso un periodo di incertezza sui mercati, sulle monete e sugli assetti globali. I salari vengono colpiti e lo stato sociale ridimensionato. I capitali ritornano ad affluire verso il mondo della finanza. Le crisi si fanno sempre più frequenti e profonde, spianando la strada a conflitti e guerre. E alla fine un'altra onda prende il sopravvento.


Dalla prima rivoluzione industriale, gli economisti individuano quattro o cinque cicli, a seconda dell’interpretazione a cui si fa riferimento. Ogni onda però è diversa dalla precedente: ogni ciclo porta con sé un sistema socio-economico del tutto nuovo. Scrive Mason che “il momento della mutazione è fondamentalmente economico. È l’esaurimento di un’intera struttura – modelli di impresa, insiemi di competenze, mercati, valute, tecnologie – e la sua rapida sostituzione con una struttura nuova”.
Forse è il caso di fare un esempio. Il ciclo in cui ci troviamo ora è iniziato subito dopo la seconda guerra mondiale. Già prima del 1945 erano state compiute invenzioni e scoperte molto importanti, ma il conflitto mondiale causato anche dagli squilibri economici e finanziari precedenti aveva impedito che esprimessero il loro potenziale. Nel dopoguerra si creò da zero un nuovo sistema economico, basato su nuove tecnologie come l’automazione delle fabbriche, nuove fonti energetiche come il petrolio e su un nuovo paradigma economico, costituito dal fortunato connubio di libero mercato e protezione sociale da parte dallo stato. Ciò ha garantito una lunga fase di prosperità. Lo stadio ascendente dell’onda si è concluso nel 1973. La crisi petrolifera ha avviato la fase discendente, in cui i salari hanno smesso di crescere e gli investimenti sono passati dai settori produttivi al mondo della finanza.
Ora, resta da capire un ultimo punto: cosa provoca la fine di un ciclo e l'inizio di un altro? Cosa riscatta l’economia da un lungo periodo di declino e la mette sulla strada di una rinnovata prosperità? Paul Mason cerca la risposta a queste domande nell’azione delle classi sociali. Come abbiamo detto, nella parte calante di un ciclo assistiamo ad un restringimento dei salari e del welfare, quindi la classe media è quella su cui ricade di più il peso della recessione economica. L’apertura di un nuovo ciclo avviene quando questo peso diventa insostenibile, i lavoratori si rivoltano e il sistema è costretto ad una trasformazione radicale. Dice Mason: “lo stato è costretto ad agire: formalizzando nuovi sistemi, incentivando le nuove tecnologie, fornendo capitali e tutele a chi innova”.


Perché abbiamo parlato di tutto questo per spiegare l’ascesa del populismo? Perché quello a cui stiamo assistendo è molto simile a quanto previsto dal modello di Mason. A partire dagli anni 80, i salari nei paesi occidentali sono cresciuti molto poco e la ricchezza si è spostata sempre di più verso le rendite e i profitti della fetta più ricca della popolazione. A partire dalla crisi economica del 2008, la classe media ha visto il proprio tenore di vita sprofondare. Molti hanno perso il lavoro e chi l’ha mantenuto ha dovuto accettare condizioni lavorative decisamente più precarie. Le nuove generazioni hanno davanti un futuro che rischia di essere peggiore di quello della generazione precedente.
Per questo molti oggi se la prendono con la globalizzazione e l’immigrazione, che diventano dunque i bersagli preferiti di Trump, dei sostenitori della Brexit e di tutte quelle forze anti-establishment che spuntano come funghi in Europa. Laddove la politica tradizionale sembra aver finito le cartucce senza riuscire a portare un vero cambiamento, gli elettori decidono di dare una chance a chi rappresenta la novità e la rottura col mondo precedente.
Questi nuovi soggetti, tuttavia, non sembrano avere a portata di mano le soluzioni necessarie. Le loro proposte, quando esistono, sono confuse e parziali. Il loro immaginario guarda al passato, si rivolgono ad elettori nostalgici di un mondo che era facile comprendere mentre sono spaventati dalle sfide del presente. Come nei momenti finali di un ciclo, oggi assistiamo a innovazioni straordinarie nei campi di Internet, dell’intelligenza artificiale, della stampa 3D e delle energie rinnovabili. Ma il mondo di oggi non sembra ancora pronto per accoglierle. Inoltre servirà altro tempo prima di poter toccare con mano il loro immenso potenziale. Quindi forse il populismo è solo una fase di passaggio, superata la quale conosceremo l’inizio di un nuovo ciclo e di un nuovo periodo di benessere con prospettive che ancora non possiamo immaginare.

martedì 7 febbraio 2017

Il discorso di David Harbour sulla recitazione e l'empatia


Arrivo un po' in ritardo, ma voglio proprio postare la trascrizione e la traduzione (mia) del bellissimo discorso di David Harbour alla cerimonia di premiazione dei SAG Awards, un premio degli attori per gli attori. Harbour interpreta nella serie Stranger Things di Netflix il ruolo del poliziotto tutto d'un pezzo che si batte contro i mostri di un universo parallelo e contro chi cerca di mettere tutto sotto silenzio. Ok, detto così sembra un prodotto trash ma vi assicuro che è una serie che merita di essere vista. Durante la premiazione, Harbour si mette dal nulla a pronunciare questo discorso molto appassionato sull'arte della recitazione e su come possa aiutare a sentirci tutti più vicini. Infine, si scaglia e ci invita a sollevarci contro i bulli e chi cerca di colpire i deboli e gli emarginati. È chiaro il riferimento al recente insediamento di Donald Trump e ai suoi primi atti da presidente, ma credo che siano parole che possa andare al di là della contingenza del momento.

Trascrizione:

«I would just like to say, in light of all that’s going on in the world today, it’s difficult to celebrate the already celebrated Stranger Things, but this award from you who take your craft seriously and earnestly believe, like me, that great acting can change the world is a call to arms from our fellow craftsmen and women to go deeper. And through our art to battle against fear, self-centeredness and exclusivity of our predominantly narcissistic culture and through our craft to cultivate a more empathetic and understanding society by revealing intimate truths that serve as a forceful reminder to folks that when they feel broken and afraid and tired they are not alone. We are united in that we are all human beings and we are all together on this horrible, painful, joyous, exciting and mysterious ride that is being alive.
Now, as we act in the continuing narrative of Stranger Things, we 1983 midwesterners will repel bullies. We will shelter freaks and outcasts, those who have no home. We will get past the lies. We will hunt monsters and when we are at a loss amidst the hypocrisy and the casual violence of certain individuals and institutions, we will, as per Chief Jim Hopper, punch some people in the face when they seek to destroy the weak and the disenfranchised and the marginalized. And we will do it all with soul, with heart, and with joy. We thank you for this responsibility. Thank you.»

Traduzione:

«Vorrei soltanto dire che, alla luce di tutto quello che sta succedendo nel mondo, è difficile celebrare il già celebrato Stranger Things, ma questo premio da chi prende il proprio mestiere seriamente e crede sinceramente, come me, che la grande recitazione può cambiare il mondo è una chiamata alle armi dai nostri colleghi a fare ancora di più. E attraverso la nostra arte batterci contro la paura, l'egocentrismo e l'esclusivismo della nostra cultura prevalentemente narcisistica e attraverso il nostro mestiere coltivare una società più empatica e comprensiva rivelando verità intime che servano da potente promemoria per coloro che si sentono abbattuti, impauriti e stanchi che non sono soli. Siamo uniti nell'essere tutti umani e siamo tutti insieme su questa orribile, dolorosa, gioiosa, emozionante e misteriosa corsa che è essere vivi.
Oggi, come facciamo nel racconto in corso di Stranger Things, noi gente del midwest del 1983 respingeremo i bulli. Proteggeremo i diversi e i reietti, chi non ha una casa. Supereremo le menzogne. Daremo la caccia ai mostri e quando ci sembrerà di perdere contro l'ipocrisia e la violenza gratuita di certi individui e organizzazioni, tireremo, come il poliziotto Jim Hopper, un pugno in volto a quelle persone che cercano di distruggere i deboli, gli esclusi e gli emarginati. E lo faremo tutti con l'anima, il cuore e gioia. Vi ringraziamo per questo onore. Grazie.»