mercoledì 26 settembre 2012

Il manganello della finanza

Oggi è stata una giornata emblematica di quello che sta accadendo in questi anni di crisi che morde soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Gli stessi strati sociali che oggi sono scesi in piazza in Spagna, per far sentire la propria voce contro i tagli e l'austerità del governo Rajoy. Migliaia di indignados hanno sfilato per il secondo giorno consecutivo nel centro di Madrid e tentato di raggiungere il Parlamento, con il solito contorno di scontri con le forze dell'ordine. La stessa scena si è vista in Grecia, dove i due maggiori sindacati del paese avevano indetto per oggi uno sciopero generale, trasformatosi in manifestazione condita anche qui da scontri con la polizia.
Ma i celerini non sono stati gli unici a rispondere con prepotenza alle legittime rivendicazioni della piazza. I listini delle borse europee di oggi sono un bollettino di guerra: Madrid la peggiore con un -3,92%, Milano si accoda con un -3,29. I giornali strombazzano: "Bruciati 133 miliardi".
Il popolo ha alzato la sua flebile voce e gli operatori finanziari hanno pensato bene di mettere subito mano al manganello delle borse. In questo "mercoledì nero" non è accaduto nulla di diverso da quello che sta succedendo da quando è iniziata questa crisi economica. La finanza e i mercati hanno acquisito un enorme potere e ora controllano i parlamenti nazionali e l'Unione Europea, per mezzo dello spread. Il governo distrugge il welfare, abolisce l'articolo 18 e taglia sulla sanità e l'istruzione? Bene, bravo, bis. E lo spread si abbassa. La gente scende in strada e si ribella? Pollice verso. E lo spread si alza.
Ma come è stata possibile questa cessione di sovranità nazionale a oscuri operatori di borsa? Tutto è iniziato negli anni 80, quando Reagan negli Usa e la Thatcher in Inghilterra hanno dato il via ad un'operazione di rimozione delle barriere poste al mercato e alle libertà dei capitali così faticosamente costruite dopo l'unica crisi (forse) peggiore di quella attuale, quella del 1929. In questi decenni la finanza ho operato sottotraccia, nell'ombra, facendo pressioni sulla politica affinché deregolamentasse sempre più la legislazione economica e finanziaria. Negli Stati Uniti, questo disegno è stato messo in pratica sia dai democratici, durante l'amministrazione Clinton specialmente, sia dai repubblicani. E tutto il resto del mondo dietro a prendere esempio. Illuso dalle false promesse della globalizzazione che avrebbe portato più benessere per tutti. Invece nel 2008 scoppia la crisi dei mutui subprime che, dagli Stati Uniti, si riversa sull'intero pianeta e, nel Vecchio Continente, si trasforma nell'attuale crisi dei debiti nazionali.
La finanza oggi sta prendendo di mira l'Europa perché è l'anello più debole dell'economia globale. Perché è un sistema pieno di contraddizioni, una federazione di stati mancata con una banca centrale impotente e scarsa legittimazione democratica. Nulla si risolverà se permane l'attuale immobilismo della politica europea. Due strade possiamo imboccare e dobbiamo farlo il più velocemente possibile: o si getta alle ortiche il sogno europeo e si torna agli stati nazionali nel pieno dei loro poteri, anche di battere moneta, o si costruisce un'Unione Europea che sia guidata da organi eletti e sia integrata economicamente e politicamente, non tenuta insieme solo da una moneta comune. Non muoversi significa cadere nel baratro, accentuando le disuguaglianze e l'instabilità sociale. Da cui, nel lungo periodo, nemmeno i poteri forti avrebbe da guadagnare.

sabato 1 settembre 2012

Eugenio Scalfari, Ezio Mauro, la destra e la sinistra

Il 12 novembre 2011 è una data storica. Le dimissioni di Berlusconi hanno segnato la fine non solo di un uomo che in qualche modo ha monopolizzato l'ultimo ventennio ma di un intero modo di concepire la politica, il berlusconismo. Decretarne oggi la fine può sembrare prematuro ma credo che l'arrivo del governo tecnico e della grande coalizione pd-pdl-terzopolo abbia provocato un grande sconvolgimento nell'agone politico e questo cambiamento in qualche modo va registrato.
I maggiori problemi stanno però nascendo all'interno della vecchia opposizione. Finché c'era il grande nemico, il despota, il dittatore da combattere le truppe della sinistra erano compatte. Certo, qualche screzio era sempre presente, ma tutto sommato, le posizioni di principio erano le stesse, gli argomenti, i modi con cui veniva attaccato l'avversario erano gli stessi. Negli ultimi mesi, invece, il governo Monti ha in parte normalizzato le tradizionali divisioni, costringendo le forze ricollegabili alla sinistra a riportare a galla la propria identità.
Questo è quello che sta accadendo anche all'interno della redazione di Repubblica dove, prima il fondatore Eugenio Scalfari e poi il direttore Ezio Mauro, davanti al conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale nei confronti della procura di Palermo per l'intercettazione di alcune telefonate del capo dello stato, hanno rinnegato anni di lotta antiberlusconiana e rimesso in discussione certe prese di posizione del passato solo perché la persona coinvolta nei nuovi scandali è il presidente della Repubblica e non quello del consiglio. Insomma, due pesi, due misure. Ma c'è di più. I maggiorenti del quotidiano di via Colombo sembrano avvertire la necessità di sentirsi di nuovo di sinistra, spiegando a tutti gli altri cosa rappresenta questo termine.
Scalfari, nei suoi consueti editoriali domenicali, difende a spada tratta l'operato del Colle. Lo fa citando leggi, interpretando commi. Subito le controparti (il costituzionalista Zagrebelsky sullo stesso quotidiano, Marco Travaglio sul Fatto) gli fanno notare gli errori marchiani che compie. Ma lui, incurante, continua sulla sua strada. Per carità, non è l'unico a prendere le parti di Napolitano. Tutti loro in realtà lo fanno perché credono che la tutela dell'"istituzione più importante" in questo momento, quella "che ha tolto l'Italia del baratro", quella che ha dato vita al governo tecnico, sia più importante della verità in sé. Dire che il conflitto di attribuzione sollevato dal Colle è sbagliato, secondo loro, contribuirebbe a mettere in pericolo la tenuta delle istituzioni, di cui Napolitano è il perno.
Sempre su Repubblica il direttore Ezio Mauro, dal canto suo, sceglie una posizione intermedia sul conflitto di attribuzione, sostenendo comunque la necessità di contrastare la «manovra contro il Quirinale», «uno dei pochi punti fermi della nostra democrazia». Ma Mauro non si ferma qui e accusa coloro che criticano il Quirinale di essere di destra, nei loro «linguaggi, comportamenti e pulsioni». Arriva pure a fare una lista della spesa dei valori appartenenti alla destra: «zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione».
Dai pareri di queste due voci del giornalismo italiano possiamo prendere spunto per chiederci, come fa Mauro, cos'è veramente la destra e cos'è veramente la sinistra.
Prendiamo, per esempio, il convincimento di Scalfari soprattutto, ma anche di Mauro, che le istituzioni italiane siano in grave pericolo e pertanto occorra proteggere il loro «perno», cioè il presidente della Repubblica Napolitano. In questo modo, pongono la necessità di tutelare l'istituzione del Colle sopra l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e quindi sopra lo stesso valore di giustizia. A questi signori vorrei dire che venire meno ai diritti e alla loro applicazione per un supremo senso dello stato non è un atteggiamento di una sinistra responsabile, ma traccia un preoccupante parallelo con quello che accadeva nella Russia di Stalin dove, per consentire il pieno sviluppo dello stato comunista, si calpestavano i più basilari diritti umani. Preferire l'integrità delle istituzioni alla certezza del diritto è una condotta dell'estrema sinistra, come preferire l'ordine interno assoluto all'applicazione dei diritti è di estrema destra.
Ezio Mauro, poi, oltre a fare un elenco dei valori della destra, bolla certi linguaggi come "di destra" (subito scimmiottato anche dal segretario pd Bersani con Grillo). E questo ci spinge a chiederci: cosa sono in definitiva destra e sinistra?
In base all'approccio che una forza politica ha con la storia e con i cambiamenti, la destra è quella conservatrice che preferisce rimanere nella tradizione mentre la sinistra è quella aperta alle novità, al progresso. E questo può essere un elemento di distinzione, ma poi vai a capire cosa è veramente progresso e cosa è veramente tradizione. E inoltre, il buon senso ci dice che l'ideale è saper soppesare le tradizioni buone e quelle cattive, come le innovazioni buone e quelle cattive.
In base alle loro idee rispetto al sistema economico, la destra è quella che spinge verso un minore intervento dello stato (quindi verso il liberismo), la sinistra invece preme per un maggiore ruolo pubblico (il cui estremo è il socialismo). Anche se questa distinzione in Italia vale quello che vale, vista la trasversalità delle teorie neoliberiste.
Una differenza sostenuta anche da Mauro nel suo articolo di fondo è il rapporto con la giustizia. Nei paesi normali, infatti, è la destra a chiedere condanne più severe e pene più certe, mentre la sinistra è più incline ad ascoltare le ragioni dei reclusi. In Italia è vero il contrario visto che fra l'ala destra del parlamento (prevalentemente, ma non solo) e le aule dei tribunali, si vedono gli stessi volti. E poi in realtà, anche la sinistra vuole una giustizia più efficace, ma se la destra la chiede soltanto per i piccoli criminali, la sinistra si aspetta che gli stessi principi valgano anche per i colletti bianchi della politica e dell'economia.
Qualcuno dice che la sinistra è per l'uguaglianza e la destra per la libertà. Ma, la storia lo dimostra, l'una è impossibile senza l'altra.
Secondo me, la diversità definitiva tra destra e sinistra sta nella loro idea di società, nella concezione della comunità, delle persone nel loro vivere insieme. È di destra pensare che le altre persone siano avversari, che per farcela occorra farcela da soli, lottando contro gli altri. È di destra lasciare che sia la legge del più forte a dettare come vanno le cose. È di sinistra, invece, puntare sulla solidarietà fra gli individui, sul "farcela insieme", sullo stare uniti e non lasciare indietro nessuno. Questo secondo me distingue la destra dalla sinistra. Ed è per questo che io sono di sinistra. Per quello che vale.

lunedì 20 agosto 2012

Due storie, un'unica lotta. Per i diritti

Due storie. Due storie fanno capolino sulle prime pagine dei giornali in questi giorni. Sono due storie alle quali normalmente sarebbe stato dedicato meno spazio ma, complice la consueta penuria di notizie ferragostana, stanno godendo di una certa risonanza.
La prima è la storia di tre ragazze russe poco più che ventenni, le Pussy Riot che, stufe dell'oppressione del loro governo verso chi manifesta liberamente il proprio pensiero, hanno deciso di cantare una canzone contro il loro presidente illiberale sull'altare della cattedrale più importante della nazione. Con questo gesto, figlio illegittimo della società della comunicazione, si sono accaparrate l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale che le sta sostenendo nel processo che le vede imputate per quell'efficace atto di protesta e che si è concluso con una condanna a due anni di lavori forzati, senza condizionale. «Esistono ancora i lavori forzati?» si sono chiesti i più.
L'altra storia è quella di un personaggio un po' più accorto nel ribellarsi al sistema, Julian Assange. Assange è uno che ci sa fare con il computer e due anni fa ha creato un sito web, Wikileaks che, servendosi delle cosiddette "gole profonde" all'interno delle organizzazioni governative e non, svela i segreti del potere, le verità indicibili che gli stati nascondono, i crimini che essi compiono e poi vogliono insabbiare. Da quando Assange ha cominciato il suo lavoro non ha più un attimo di respiro, dovendosi difendere da un accerchiamento internazionale sempre più stretto. Sul suo capo pendono due accuse di molestie sessuali che fanno acqua da tutte le parti ma che le autorità svedesi usano come pretesto per poterlo estradare nel proprio paese, dal quale poi essere condotto negli Stati Uniti dove probabilmente lo attende il boia. Così Assange si è visto costretto a barricarsi all'interno dell'ambasciata londinese dell'Ecuador (unico stato ad avergli concesso asilo politico), dalla quale non può uscire senza rischiare la deportazione.
Queste due storie, in apparenza, possono sembrare di secondaria importanza. Chi è preoccupato perché non riesce a trovare un posto di lavoro o perché non riesce ad arrivare alla fine del mese, sentendo parlare in tv delle Pussy Riot o di Assange, volgerà i propri pensieri da un'altra parte quando non cambierà canale. In realtà, queste due storie sono il simbolo di una lotta, una lotta che esiste da quando esiste l'uomo: la lotta per i diritti umani. Nello specifico, il diritto di manifestare liberamente i propri pensieri. Qualcuno potrebbe pensare che questo tipo di diritti siano stati raggiunti nel dopoguerra, con la sconfitta dei totalitarismi, e da allora siano al sicuro. Ma non è così. Ogni giorno i vari gruppi di potere del mondo, siano essi governi, multinazionali o altro, cercano in ogni modo di ridurre gli spazi di libertà, per aumentare il loro controllo e il loro potere. Contro di essi si battono, spesso nella più completa solitudine, uomini e donne che hanno capito che di questa lotta varrà il mondo che lasceremo ai nostri figli. Noi abbiamo il compito di trasmettere loro i diritti conquistati dai nostri avi così come li abbiamo ereditati. Dipende da noi fare in modo di lasciargli un mondo dove regnano la libertà, la giustizia e la pace e non un luogo dove prevaricazione e ingiustizie siano la regola.
Per questo è nostro dovere continuare a parlare di questi episodi simbolo ma soprattutto è nostro dovere sostenere le persone e le organizzazioni impegnate in questa battaglia, anche quelle che non possono godere delle trombe dei mass media.

lunedì 13 agosto 2012

Cos'è la decrescita

Da sempre sentiamo dire che per risolvere i problemi dell'economia serve la crescita: crescere per creare nuovi posti di lavoro, crescere per abbattere il debito pubblico, crescere per aumentare il benessere. L'intera economia è basata sulla crescita, ovvero sull'aumento sempre maggiore della produzione e del consumo. Ma come è possibile sostenere questo aumento infinito all'interno di un mondo finito? Questa è la domanda (retorica) fondamentale che si pongono i sostenitori della decrescita. La decrescita, infatti, è una teoria economica in base alla quale si deve abbandonare la logica perversa del produrre-consumare-crepare per dedicarsi di più a ciò che realmente importa nella vita: le relazioni umane, la cultura, la spiritualità, gli interessi personali. Per questo molti parlano di "decrescita felice" o "decrescita serena".
Per capire i paradossi della società della crescita, basta capire come funziona il PIL (Prodotto Interno Lordo), ovvero l'unità di misura della nostra economia. Esso viene calcolato sommando tutti i beni destinati al consumo prodotti all'interno di un paese in un anno. Il problema sta in quali beni esso considera: infatti non calcola il lavoro svolto gratuitamente come il volontariato e quello svolto dalle casalinghe (come faremmo senza?!) ma prende in considerazione le attività illecite come il riciclaggio di denaro sporco e le attività inquinanti. Il Pil tiene conto della produzione di armi e non considera la nostra istruzione e la nostra salute. Insomma, come disse Robert Kennedy nel 1968, il Pil «misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».
Ma i problemi della società della crescita non si fermano qui: un altro importante effetto collaterale della produzione eterna senza limiti è il suo effetto sull'ambiente. La questione del surriscaldamento globale è oggi più attuale che mai, se non invertiamo la tendenza dell'aumento delle temperature mondiali potremmo assistere nell'arco di pochi decenni a veri e propri cataclismi, dei quali già da ora possiamo vedere i segnali: innalzamento del livello dei mari, desertificazione e inaridimento dei suoli, fenomenti climatici estremi sono solo alcuni.
La decrescita si pone quindi come un'alternativa ad un mondo sempre più ingiusto e sempre più diseguale che sta andando verso il baratro per sua stessa mano. Ci invita a recuperare la ragionevolezza persa, quella che ci suggerisce di passare dal "produrre di più" al "produrre il giusto", di adottare nuovi valori come l'altruismo al posto dell'egoismo, l'importanza delle relazioni al posto del consumo sfrenato e della produzione illimitata, il piacere del divertimento al posto dell'ossessione per il lavoro, il gusto per il bello al posto dell'efficienza produttiva, il locale al posto del globale. La decrescita si può anche esprimere con otto parole, le "otto erre": rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Nella pratica di tutti i giorni, questi termini astratti si possono tradurre nel ridurre i consumi, certo, ma anche nell'adottare uno stile di vita più sobrio, nel ridurre gli sprechi, nell'autoproduzione dei beni in casa (come le marmellate e l'orto) e, dal punto di vista politico, nel favorire le energie rinnovabili e nell'adottare politiche di ridistribuzione dei redditi e di welfare sociale.
Ma la decrescita deve essere anche un percorso introspettivo di tipo personale, che ci spinga a diminuire le ore di lavoro, specie se si tratta di un'attività che non ci piace fare, per dedicarci ad altri aspetti della vita che sono quelli, per tornare a Kennedy, «per cui vale la pena vivere»: la cultura (l'istruzione, l'arte, la musica, la letteratura, la religione, la filosofia, la ricerca scientifica pura...), lo sport, le relazioni umane e le attività sociali.
Questo cambiamento di paradigmi può sembrare una svolta radicale ma è assolutamente necessaria se vogliamo togliere il nostro pianeta da una strada che lo sta portando verso il baratro e indirizzarlo su quella che lo può portare ad una umanità più solidale con se stessa dove le disuguaglianze e le ingiustizie siano sempre più solo un lontano ricordo.

venerdì 18 maggio 2012

La crisi, un'opportunità per cambiare strada

Nasdaq. Ftse Mib. Default. Pil. Spread! Oggigiorno i media ci bombardano con parole che non hanno alcun significato se non per banchieri e speculatori; ma le nostre vite sono legate con fili invisibili a quei numeri che salgono e scendono. L’operaio, il muratore, il contadino, l’insegnante si mettono le mani nei capelli davanti allo spread che si alza e al Pil che si abbassa.
Con la globalizzazione ci era stato promesso un mondo nuovo, ci era stato assicurato più benessere per tutti, un mondo più equo, la sconfitta della povertà. Poi è arrivata la crisi a sparigliare i giochi; come schede di un domino tutti i paesi occidentali ci sono caduti uno dopo l’altro, sotto il peso dei mercati finanziari crollati su se stessi come castelli di sabbia.
Il dolce sogno della globalizzazione si è infranto nel 2007, quando negli Stati Uniti il sistema dei mutui subprime è precipitato. Nel paese di Ronald Reagan e della deregulation, da anni si elargivano prestiti a soggetti che non potevano vantare alcuna garanzia di restituirli. Le banche e gli istituti di finanziamento scaricavano questi prestiti “spazzatura” sui piccoli investitori, con operazioni al limite della legalità. Ma ad un certo punto il castello di carte non ha potuto fare altro che crollare: alcune banche sono fallite, altre sono state salvate in extremis da copiosi aiuti pubblici. La recessione, però, era già cominciata. E dagli USA aveva raggiunto l’Europa, il Giappone e poi anche i paesi in via di sviluppo.
Dopo qualche anno, mentre si iniziavano a intravedere i primi barlumi della ripresa, nel Vecchio Continente è scoppiata la crisi dei debiti degli stati, che imperversa tutt’ora sull’Eurozona. La Grecia è stato il primo paese a vedere i tassi di interesse sul proprio debito pubblico arrivare alle stelle, avviandosi sulla strada del fallimento. La troika (UE, BCE e FMI) ha concesso aiuti economici miliardari alla finanza ellenica, ma anche a quelle di Irlanda e Portogallo. All’appello dei Piigs (“maiali” in inglese), mancano l’Italia e la Spagna, oggi sorvegliati speciali.
Fin qui la cronaca economica degli ultimi mesi, ma gli effetti più pesanti della crisi si sono abbattuti sugli strati più deboli delle popolazioni coinvolte. Sono aumentate le disuguaglianze, calati gli stipendi, la disoccupazione ha raggiunto livelli astronomici (in Italia quella giovanile è al 31 per cento).
Questi problemi contingenti si aggiungono a quelli strutturali: la sperequazione fra ricchi e poveri, sia all’interno delle nazioni che fra paesi diversi, l’esasperazione dei sentimenti che fa crescere l’odio nei confronti del diverso, il sovrasfruttamento e l’inquinamento dell’ambiente.
Dinnanzi a tutto ciò, oggi si sta sempre più diffondendo la proposta di un radicale ripensamento dello stile di vita del pianeta, partendo dall’attuale sistema economico. Alcune soluzioni possono sembrare utopistiche ma non sapremo mai se possono funzionare se non cominciamo da subito a dirigere la nostra rotta verso di esse.
Dal punto di vista economico, urge seppellire definitivamente il consumismo sfrenato che ha reso lo spreco un’abitudine nefasta ed è stato attuato grazie ai bassi costi di produzione che si traducono in salari da fame e diritti ridotti all’osso per i lavoratori dei paesi in via di sviluppo. Ridurre dunque la produzione, eliminando i beni inutili e aumentando la qualità di quelli necessari.
Abbassare il Pil, per quanto possa sembrare una follia agli economisti mainstream, è l’unico modo per tornare a vivere come persone e non più come automi del “produrre, consumare, crepare”. Del resto l’odierno regime energetico occidentale, che ha consentito questo ritmo produttivo, è basato su fonti fossili – petrolio, carbone, uranio – che non dureranno per sempre. Occorre pertanto ridurre gli sprechi energetici, migliorando l’efficienza delle reti di distribuzione e iniziando a costruire gli edifici con tecnologie di questo secolo, e puntare sulle fonti rinnovabili (solare, eolico, geotermico e biomasse). Dobbiamo riservare un’attenzione particolare all’ambiente, che l’inquinamento sta distruggendo con la crescita della temperatura globale. Si prospettano due gradi di aumento che se davvero si realizzeranno daranno il via a una serie di catastrofi: l’innalzamento del livello del mare, una maggiore frequenza dei fenomeni climatici estremi (di cui l’Italia negli ultimi mesi ha avuto degli assaggi), una desertificazione più spinta.
Dato ciò, è fondamentale una presa di coscienza globale immediata, poiché l’attuale sistema economico ci può portare solo al collasso. Dobbiamo rimettere al centro di tutto la persona e suoi reali bisogni.

giovedì 12 aprile 2012

Noi e i media

La nascita di un nuovo mezzo di comunicazione – la radio nell'Ottocento, la televisione nel secolo scorso, Internet più recentemente – ha sempre creato grande entusiasmo in alcuni strati dell'opinione pubblica e grande apprensione in altri. Queste due posizioni, nel tempo, si sono sempre più spinte verso i loro estremi: da una parte gli apocalittici che li definiscono un pericolo tout court e dall'altra gli integrati che li considerano acriticamente un segno del progresso. Ciononostante la stragrande maggioranza della popolazione utilizza i diversi media, seppur con approcci differenti, con moderatezza e senza eccessi, collocandosi in una posizione intermedia tra le due oltranziste che abbiamo descritto.
Del resto, i media sono dei semplici strumenti e di per sé non sono né buoni né cattivi ma tutto dipende dall'uso che ne viene fatto. C'è da fare poi un distinguo tra i media tradizionali (tv, radio e giornali) e quelli nuovi (Internet e i social media): i primi sono unidirezionali, l'informazione viene calata dall'alto su uno stuolo di utenti "passivi"; i nuovi media, invece, sono multidirezionali, ogni utente crea il proprio contenuto e lo condivide con il resto della rete.
Data questa distinzione possiamo individuare due diverse classi di possibili pericoli. Per quanto riguarda i media tradizionali, il rischio maggiore è quello di annullare il senso critico dell'utente con un flusso costante di messaggi coordinati e univoci, senza che vi sia la possibilità né di poter sentire le voci fuori dal coro né di approfondire le diverse tematiche, secondo le proprie aspirazioni e i propri gusti. Il Web, invece, contiene tutto lo scibile umano e quindi il problema dell'accesso alle informazioni non si presenta, sebbene possa esserci un sovraccarico di contenuti.
Il pericolo principale che si corre con i social media è l'eccesso di comunicazione tale da portare a soffocare la riflessione personale. Entrare in un social network come Facebook è come essere sempre alla propria festa di compleanno dove, in una stanza chiusa, ci sono tutte le persone che conosci, che magari sono un po' brille, e vogliono in continuazione parlarti per farti gli auguri, raccontarti cos'hanno fatto quel giorno, mostrarti le foto dei loro cani e stupirti con l'ultima barzelletta. Questo paragone ci porta all'altra questione legata ai social media: la scarsa qualità dei contenuti trasmessi. Questo problema in linea teorica non dovrebbe sussistere nei media tradizionali, al netto delle debite eccezioni.
Allo stesso tempo entrambe le categorie di mezzi di comunicazione hanno delle potenzialità poco espresse: se la Rete è lo strumento di libertà per eccellenza in grado di aggirare la censura e permettere a tutti di manifestare le proprie opinioni, i media tradizionali dovrebbero puntare sulla qualità e il rigore dei loro contenuti. Pertanto dovremmo finirla di snobbare questi strumenti e la comunicazione in quanto tale, riconoscendole il ruolo fondamentale che ricopre all'interno delle nostre vite. Occorre rendersi conto che i media sono strumenti eccezionali e potentissimi, da non lasciare nelle mani di oligarchie e poteri forti.

lunedì 5 marzo 2012

La vita non dipende dallo spread ma dalla fotosintesi

È possibile crescere all'infinito? Dal punto di vista biologico, tutti noi sappiamo che la risposta è 'no': conclusa l'adolescenza, l'altezza che abbiamo raggiunto rimarrà la stessa per tutta la nostra vita. Sotto il profilo economico, se ci riflettiamo un momento, la risposta è altrettanto scontata: no. Com'è possibile pensare che la produzione possa crescere per sempre? Eppure tutti i media ci propinano la crescita come la panacea di tutti i mali dell'economia, dalla disoccupazione al debito pubblico.
Una diversa visione delle cose ci è stata offerta durante l'incontro sul tema "Come affrontare la crisi?", organizzato dalla Cooperativa Famiglie Lavoratori presso l'Auditorium della Cassa Rurale di Treviglio il 26 gennaio 2012 dove sono intervenuti Maurizio Pallante, che si occupa da anni di ambiente ed energia ed è leader del Movimento per la Decrescita Felice, e Andrea Di Stefano, esperto di finanza e direttore della rivista "Valori", mensile di economia sociale e sostenibilità edito da Banca Etica.
Nella prima parte della serata si è parlato delle cause della crisi che ha sconvolto il mondo nel 2008. La principale è stata trovata nel debito, sia quello degli stati sia quello dei privati cittadini. Secondo i due relatori la crisi è stata fin dal principio di tipo produttivo, con un eccesso di offerta di beni rispetto alla domanda. E se, fino ad allora, si era riusciti a mantenere il mercato in precario equilibrio con un alto debito che, facendo costare di più le merci, aveva permesso di sostenere l'equazione "offerta uguale domanda", all'improvviso il sistema è crollato su se stesso perché la maggior parte dei debiti non veniva più restituita (partendo dai mutui subprime negli Stati Uniti).
Nei paesi occidentali la crisi ha determinato un alto tasso di disoccupazione, per contenere il quale, a detta degli economisti ortodossi, «è necessario tornare a crescere». Ma Pallante ha fatto notare che in Italia, dal 1960 al 1999, a fronte di un Pil aumentato del 360%, gli occupati sono cresciuti solo di 400 mila unità.
A proposito del Pil, durante la conferenza, è stata ravvisata la necessità di sostituire questo misuratore di tipo quantitativo con uno di tipo qualitativo. Al Pil, infatti, sfuggono fenomeni come l'autoproduzione (il classico orto di casa, per esempio) o il lavoro delle casalinghe e porta al paradosso che se quest'anno ci fossero più ammalati e così si comprassero più medicinali, il Pil crescerebbe, dimostrando di non essere un'unità di misura affidabile del benessere di un popolo.
Detto ciò, i due esperti hanno suggerito le loro soluzioni all'attuale sistema economico fallimentare. Pallante ha illustrato le fondamenta su cui si basa il suo Movimento per la Decrescita Felice: lo sviluppo di tecnologie per abbattere gli sprechi (per capire l'entità del problema basti pensare che il 3% del Pil italiano è costituito da cibo che viene buttato via), la sensibilizzazione delle istituzioni verso queste tematiche e il cambiamento degli stili di vita. A tal riguardo, la discussione si è spostata quasi su un piano filosofico: decrescere nei consumi e nella dipendenza dai mercati internazionali, rimettere al centro il territorio e puntare sull'autoproduzione ci permetterebbe di avere più tempo a disposizione per le relazioni umane e per la nostra sfera sociale. Insomma, consumare meno per vivere meglio.
Secondo Di Stefano, invece, la soluzione sta nel mettere un freno alla "finanza Frankenstein", che oggi vale trenta volte di più del Pil del mondo. Altre misure riguardano l'introduzione della Tobin Tax (la tassa sulle rendite finanziarie), lo spostamento della pressione fiscale dal lavoro ai consumi, la creazione del reddito minimo garantito, un maggiore impegno nel risparmio energetico e la redistribuzione del reddito all'interno dei paesi sviluppati (negli ultimi 20-25 anni le entrate dell'1% più ricco della popolazione sono aumentate del 275%, quelle del restante 99% solo del 18).
Ai due relatori è stato poi chiesto cosa può fare, dal canto suo, il singolo individuo. Deve aspettare direttive dall'alto o può mettere in pratica delle azioni concrete già da subito? Di Stefano ha risposto che l'iniziativa migliore che una persona può intraprendere è quella di esercitare pressioni sulle amministrazioni locali affinché comincino ad adottare politiche virtuose nei campi della gestione dei rifiuti, dello sfruttamento della risorsa idrica, della mobilità e della ristrutturazione degli edifici pubblici per renderli più efficienti sotto il profilo energetico. Pallante ha aggiunto anche che è necessario prestare un'attenzione particolare alla propria abitazione, installando piccoli impianti di fonti rinnovabili e potenziando l'isolamento termico (punto debole degli edifici italiani, se paragonati a quelli tedeschi).
Molti di coloro che hanno preso parte a questo appuntamento, hanno realizzato di vivere in un mondo sull'orlo del baratro, drogato da decenni di energia a prezzo di saldo (ora in esaurimento) che, oltre ad averci abituato al consumismo più sfrenato, ha inquinato l'ambiente fino a farci giungere quasi al punto di non ritorno. Allo stesso tempo gli astanti hanno scoperto che una soluzione esiste e risiede nel mettere di nuovo al centro di tutto la persona umana e i suoi veri bisogni, ridimensionando i numeri di questa economia fine a se stessa. Perché, per dirla con le parole di Pallante, «la vita non dipende dallo spread, ma dalla fotosintesi clorifilliana».

Aggiornamento del 16/03/2012
Il professor Maurizio Pallante ha avuto modo di leggere questo articolo e l'ha così commentato:
«L'articolo dello studente dimostra un'intelligenza, una maturità, una volontà di capire e una capacità di comunicare l'essenziale con chiarezza, che non esito a definire straordinarie. Finché, nonostante tutti i giganteschi sforzi fatti per evitare che le persone pensino con la propria testa, continueranno a esserci ragazzi con queste caratteristiche, non tutto è perduto. Quell'articolo testimonia che l'irriducibilità degli esseri persiste testardamente a tutti i tentativi di annullamento e omologazione.»

martedì 10 gennaio 2012

Quale cibo nel nostro futuro?

A scuola l'insegnante ci ha chiesto di svolgere un tema sull'alimentazione, la traccia è quella degli ultimi esami di stato (vedi tracce, pg.4).

Nel passato, tra le persone di cultura cristiana ma non solo, si era soliti ringraziare dio e rendergli onore prima di iniziare a mangiare. Oggi questa sacralità del cibo si è persa. Il cibo è diventata una merce, quotata sui mercati internazionali alla stregua del petrolio e del gas, soggetta alla speculazione come gli immobili e i titoli di stato.
L'identificazione dei prodotti alimentari come un mero strumento con cui fare denaro è pienamente esemplificata dall'attività delle multinazionali, le quali trovano sempre più consenso tra i consumatori a scapito dei mercati rionali e dei prodotti dalla filiera corta.
Nei paesi sviluppati la cementificazione selvaggia ruba sempre più terre all'agricoltura (in Italia, ogni giorno, se ne perdono per un'estensione pari a 7 volte piazza del duomo a Milano). Così, le multinazionali fanno degli accordi con i governi africani per acquistare o affittare grossi appezzamenti di terreno che vengono sottratti all'agricoltura di sussistenza delle popolazioni locali; viene così aggravato il problema della fame nel mondo. Queste monocolture estensive assestano un duro colpo alla biodiversità e sono spesso praticate con OGM e fertilizzanti chimici che, oltre a dare serie preoccupazioni per la salute, riducono la qualità e le proprietà del prodotto.
Ma la questione del cibo è legata a doppio filo a quella dell'acqua, che non a caso è anche chiamata "oro blu". Quando le multinazionali acquistano dei terreni, acquisiscono anche il diritto di usare le falde sotterranee. L'acqua poi è un motivo di conflitto tra i vari stati, soprattutto in Africa, dove capita spesso che lo stato dove nasce il fiume costruisca dighe per sfruttare l'acqua il più possibile ma, così facendo, priva di queste risorse lo stato più a valle.
Un'altra prova della mercificazione dei prodotti agricoli la troviamo nella forte speculazione internazionale che ha fatto impennare il prezzo del grano; aumento dovuto anche alla scelta di destinare alcune colture ai biocarburanti, sottraendo terreni alla produzione di cibo che servirà sempre di più su un pianeta che raggiungerà i nove miliardi di abitanti nel 2050.
Tutto ciò si riflette inevitabilmente sulla concezione del cibo del singolo consumatore. Gli italiani stanno abbandonando la buona cucina, sostituendola con prodotti grassi e dolci che, insieme ad uno stile di vita sedentario, portano a malattie cardiache e di altro tipo.
L'Italia è uno dei paesi al mondo con la più alta speranza di vita proprio per la sua tradizione culinaria, alla cui base c'è la Dieta Mediterranea, una dieta povera che contempla alimenti salubri e in giusto equilibrio fra loro.
Mentre in passato la consumazione del cibo era un momento imprescindibile della giornata, in cui era importante anche il fattore umano della socializzazione, oggi il pranzo e la cena sono fissati in base agli altri impegni e spesso sono consumati in fretta.
Questa non è una situazione sostenibile ma va cambiata attraverso un mutamento dei nostri costumi e una maggiore sensibilizzazione delle persone, magari sin da quando sono giovani con un programma di educazione alimentare nelle scuole.
Questo è estremamente importante perché noi siamo quel che mangiamo e la nostra salute è determinata in primo luogo dagli alimenti che assumiamo.