In men che non si dica, ieri il governo Renzi è entrato nel pieno dei suoi poteri. Ciò che fino a qualche settimana fa sembrava fantascienza è diventato realtà. Il segretario Pd si rimangia mesi di promesse, dal non voler prendere il posto di Letta al non voler arrivare a Palazzo Chigi senza passare dalle urne. E all'improvviso, l'orizzonte della legislatura si sposta alla sua scadenza naturale, il 2018. Cos'è accaduto in pochi giorni per determinare addirittura un cambio di governo?
L'ipoteca all'esecutivo Letta viene posta l'8 dicembre, il giorno delle primarie per la scelta del segretario del Partito Democratico. Il sindaco di Firenze le stravince, afferma che l'indomani l'agenda del governo cambierà ma promette la fiducia a Letta, che viene confermata dalle camere. In molti credono che il presidente del consiglio non possa stare tranquillo, ma il rischio che tutti evocano sono le elezioni in primavera, non di certo una staffetta a Palazzo Chigi.
Ottenuta la forte spinta propulsiva delle primarie, Renzi deve mostrare di non stare con le mani in mano e quindi si butta sulla legge elettorale. Ne propone tre tipi, tutti già sostenuti dalle forze parlamentari. I 5 stelle si chiamano fuori dalla discussione, Ncd fa melina e chi si butta a capofitto sull'opportunità di tornare a pieno titolo nella scena politica è Berlusconi. I due si riuniscono al Nazareno, sede del Pd, e allestiscono una legge a loro misura.
Intanto Letta, al governo, si tira fuori dalla questione legge elettorale e prepara il rilancio dell'esecutivo, già promesso dopo la fiducia parlamentare di metà dicembre. Rimanda il vertice con il presidente turco Erdogan perché "Impegno 2014" è la sua priorità assoluta. "Datemi dieci giorni", avverte. Ci vorrà più di un mese. Il presidente del consiglio presenterà il suo nuovo programma di governo il giorno prima di annunciare le sue dimissioni. Troppo tardi, l'establishment gli ha già preparato il sostituto.
Sì, perché a spingere Renzi verso Palazzo Chigi sono in molti. Berlusconi, innanzitutto, che in questo modo brucia il suo più grande competitor alle prossime elezioni, mentre è sicuro che non gli farà sgarbi, pena la rottura del patto sulla legge elettorale. Se ad Alfano va bene tutto (visto che non si può permettere di andare alle elezioni, non ha alcun potere contrattuale), nel Pd l'area cuperliana sconfitta alle primarie trova con Renzi al governo il modo, ristabilizzando una legislatura claudicante, di salvare la maggioranza bersaniana nei gruppi parlamentari, quindi anche di controllare il segretario. E, perché no, anche di bruciare l'avversario interno più temuto.
L'ultimo sponsor (e garante) che rimaneva a Letta era il presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Il capo dello stato era l'ultimo giapponese che continuava a difendere l'indifendibile Letta, contro tutto e tutti. Almeno fino alle rivelazioni del libro di Alan Friedman che, ricostruendo i mesi antecedenti alle dimissioni di Berlusconi e all'avvento di Monti nel novembre 2011, scopre che Napolitano aveva sondato già da luglio la disponibilità del presidente della Bocconi ad avvicendare il leader Pdl alla guida dell'esecutivo. Una non notizia, di per sé: nello stesso periodo, i giornali davano la sostituzione come imminente. Ma abbastanza per scatenare un fuoco di fila da Forza Italia e dal M5s, che aggiunge un ulteriore tassello alla propria richiesta di impeachment. Ma a mettere in mora l'autorità del presidente della repubblica non sono quei partiti che già non nascondevano il loro malcontento verso il suo operato, ma è la fonte della notizia: il Corriere, il giornale che rappresenta il salotto buono degli industriali e dei famigerati "poteri forti".
Infine, Renzi. A lui spettava l'ultima parola sul passaggio al governo. Se non avesse voluto farlo, non l'avrebbe fatto. Ma ha capito che le elezioni sarebbero state difficili da provocare, senza assumersene la responsabilità. Inoltre, crede fermamente nelle sue capacità salvifiche, è convinto di avere il tocco magico di Re Mida, di poter arrivare nella stanza dei bottoni e fare sfracelli. E poi, lasciar passare troppo tempo in quel limbo in cui si trovava, lo avrebbe impaludato e avrebbe frenato la sua forza elettorale in una successiva campagna.
Ed eccoci al governo Renzi I. Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà un cammino tortuoso per l'ormai ex sindaco di Firenze. Non appena si cominciava ad intravedere ciò che sarebbe successo, i sondaggi hanno registrato un tonfo per il Pd, chiaro segno che l'opinione pubblica non ha apprezzato l'ennesima manovra di palazzo e soprattutto lo sfratto, in una modo così brutale, di Letta. Poi la lista dei ministri: un'accozzaglia di rappresentanti di questo e quel partito, di questa e quella lobby, di rottamatori e rottamati tutti insieme appassionatamente. Nel discorso della fiducia, è stato inutile rompere le regolette del bon ton parlamentare per propinare le solite promesse a vuoto, senza alcuna proposta serie. Infine, il voto al Senato: 169 voti a favore, solamente 8 in più di quelli necessari e 4 in meno di quelli che ha ottenuto Letta a dicembre.
Dunque, è un governo già traballante in partenza? Può essere. Dalla sua però ha una situazione economica in leggero miglioramento (per il quale non dobbiamo certo ringraziare gli ultimi governi), anche se la disoccupazione e il disagio nel paese rimarranno gravi ancora per un bel po'. È possibile che Renzi riesca a varare qualche riforma spot che possa mantenerlo sulla cresta dell'onda ma difficilmente riuscirà ad avviare quel cambiamento radicale che molti si aspettano, soprattutto con una maggioranza così eterogenea. Quindi la vita del governo, e di conseguenza quella della legislatura, non ha esattamente le gambe corte (del resto tutte le volte che il parlamento rischia di andare a casa, c'è una forza fisiologica a salvare lo status quo, con tutti i privilegi e prebende che garantisce) ma sarà difficile arrivare fino al 2018, con un parlamento in burrasca e un paese che non lo sopporta più.