giovedì 30 maggio 2013

Analisi del voto delle elezioni amministrative

Domenica e lunedì, circa 7 milioni di italiani sono stati chiamati al voto per eleggere i consigli e le giunte di 565 comuni e della Val d'Aosta. La città più importante a montare le cabine elettorali è stata la capitale Roma e su di essa si concentrano i commenti post-elezioni, ma altri importanti capoluoghi, come Brescia, Vicenza, Treviso, Siena, Pisa, Avellino, hanno votato. Globalmente, i risultati sono stati favorevoli al centrosinistra sul centrodestra e hanno visto un'accentuata flessione del M5S se paragonato ai numeri delle elezioni nazionali.

Naturalmente, i commenti politici non si sono fatti attendere. Dagli ambienti vicini a Palazzo Chigi, c'è già chi vede nel voto un'espressione di apprezzamento dei confronti del governo. Per smontare questa tesi, però, basta guardare il dato sull'affluenza: solo il 62,4% degli aventi diritto si è recato ai seggi, a fronte del 77,2% del 2008. La cifra scende a 54,3% a Roma (-20 rispetto alla tornata precedente). L'astensione quindi esprime un profondo scollamento tra cittadini e politica e questo governo certamente contribuisce a questo processo. Infatti solo sommando i risultati di centrodestra e centrosinistra (le due componenti principali del governo di larghe intese) e paragonandoli al numero degli aventi diritto al voto si capisce che l'asserzione di cui sopra non regge.

Dall'altra parte, invece, si afferma che il centrosinistra continui a vincere solo dove propone candidati esterni al partito o, comunque, degli outsider. In effetti le principali città amministrate dalla coalizione di centrosinistra corrispondono a questo profilo: l'indipendente Doria a Genova, Pisapia e Zedda di Sel rispettivamente a Milano e Cagliari, De Magistris della fu Idv a Napoli e il (fu?) rottamatore Renzi a Firenze. Senza dimenticare la regione Sicilia in mano a Crocetta, certamente non un uomo di partito. Il successo di alcuni di questi candidati e ora di Marino a Roma (con il suo slogan «non è politica, è Roma») dà torto a chi afferma che gli italiani non sanno votare alle primarie perchè scelgono candidati troppo poco moderati che non sanno guardare a destra, ma non spiega il voto di domenica e lunedì, visto che il Pd e la sua coalizione hanno prevalso anche dove hanno presentato uomini molto vicini alla sua classe dirigente. A premiare il centrosinistra è stata l'affluenza o, meglio, la scarsa affluenza. Il Pd ha infatti un elettorato fortemente convinto e fedele al partito, concentrato perlopiù nella zona rossa dell'Italia centrale. Questo sfavorisce sia il Pdl, i cui elettori vanno alle urne solo per premiare la figura carismatica del leader Berlusconi, oggi in discesa costante per la sua ossessione verso la magistratura; sia il M5S, votato per la stragrande maggioranza, come ho già detto qui, da chi vuole esprimere un voto di protesta. L'esito di queste elezioni locali non è comunque generalizzabile alle elezioni politiche visto che i sondaggi, seppur considerati i loro numerosi fallimenti recenti, presentano valori del tutto differenti da quelli emersi anche nelle città più grandi (dove il voto è più politicizzato).

Ora, si potrebbe pensare che Pd e Pdl non vedano l'ora di andare a nuove elezioni per capitalizzare l'uno il successo alle amministrative e l'altro la posizione di vantaggio nei sondaggi. In realtà, non è così. A scombinare questa equazione c'è l'incognità Renzi, che spaventa tanto a destra quanto a sinistra. A destra perché Berlusconi sa perfettamente che Renzi, proprio come lui, è un personaggio carismatico che fa colpo sull'elettorato e che, con la sua faccia giovane e nuova, lo straccerebbe in un eventuale confronto elettorale. A sinistra perché il Pd sa molto bene che in eventuali nuove primarie prevarrebbe Renzi e finirebbe per rendere il partito a sua immagine e somiglianza, togliendo la terra sotto i piedi sia all'intellighenzia, che sarebbe rottamata, sia alla parte di sinistra, che a quel punto si troverebbe senza casa politica e, chissà, forse ne potrebbe cercare una nuova. Quindi aspettiamoci una vita lunga per questo governo.

Aggiornamento del 20/06/2013. A conferma dell'ultima parte dell'articolo sulla paura per il sindaco di Firenze, l'Huffington Post riporta questa dichiarazione che avrebbe pronunciato Daniela Santanché, riferendosi alle sentenze della magistratura sfavorevoli al Cavaliere: «È una situazione buona a far fuori Belrusconi. I tribunali lo massacrano, noi non possiamo fare niente, e quando siamo morti arriva Renzi».

venerdì 17 maggio 2013

Specchietti per le allodole

A volte accendo la tv sul telegiornale e mi sembra di vedere delle scimmie che sbraitano litigandosi tra loro una banana. Spesso i temi su cui verte il dibattito pubblico nel nostro paese sfiorano il ridicolo. Come l'orchestrina del Titanic che suonava mentre il transatlantico colava a picco, noi continuiamo a dibattere su questa e quella bazzecola su cui si è impuntato questo o quel partito per ragioni di mera propaganda elettorale.
Non è con la forma che ce l'ho, ma proprio con la sostanza. Non è mia intenzione unirmi ai cori di indignazione per la parolaccia occasionale o unirmi ai pompieri che auspicano un abbassamento dei toni. Spesso ci si scandalizza di più per la volgarità delle parole che non per la volgarità dei fatti. La vicenda di Battiato (che al termine "troie" non dava certamente un significato letterale) è emblematica. Ciò che non riesco a sopportare sono proprio le tematiche su cui ci si confronta.

Prendiamo l'Imu. Quella sulla prima casa è un'imposta che è sempre esistita, finché l'ultimo (o forse il penultimo) governo Berlusconi non decise di cancellarla. Lo aveva promesso in campagna elettorale, non poteva tirarsi indietro. Visto il successo che l'operazione aveva avuto alle elezioni del 2008, il Pdl ha pensato bene di fare il bis nell'ultima tornata e ora a noi tocca sorbirci una manfrina interminabile dato che, se Berlusconi non riuscisse a farla eliminare nuovamente, perderebbe la faccia davanti ai suoi elettori. Il punto è che l'Imu sulla prima abitazione è una tassa di 4 miliardi di euro, che sono briciole in confronto ai 700-800 miliardi che assorbono i bilanci dello stato e di tutti gli enti pubblici (corrisponde allo 0,5%). Sarebbe più utile intervenire su altre imposte, il cui taglio potrebbe rilanciare l'economia, invece si continua a dibattere su questa tassa per il suo valore elettorale.

Ma l'Imu si trova in buona compagnia: dall'altra parte della barricata si sventola la bandiera dello ius soli con annesse discussioni sulla posizione di Grillo. Capisco che il Pd voglia esaltare le uniche due-tre cose su cui è compatto, ma non può ammorbarci con una misura senza alcuna ripercussione nella realtà. Infatti, gli stranieri nati in Italia ottengono già la cittadinanza al compimento dei 18 anni. È vero, prima non ne possono godere, ma visto che di fatto cittadinanza significa solo diritto di voto, non cambia nulla.

Ora, capisco che l'Imu e lo ius soli possano essere considerate come questioni di principio su cui occorre intervenire (e anch'io posso dirmi in parte contrario all'Imu e favorevole allo ius soli), ma certamente temi come questi o l'abbandono di Twitter da parte di Mentana non possono monopolizzare il dibattito pubblico nel nostro paese. Come ha chiaramente spiegato Milena Gabanelli nell'ultima puntata di Report, i problemi economici sono un'assoluta urgenza da risolvere con radicali ripensamenti dell'attuale modello economico e la classe politica si scanna per delle piccolezze. La civiltà di un paese si misura anche dalla qualità del suo dibattito interno. Poi non stupiamoci se le classifiche mondiali della libertà di espressione ci piazzano in posizioni vergognose (l'Italia si colloca al 57° posto secondo Reporter senza frontiere e al 68° - nella sezione "parzialmente liberi" - secondo Freedom House). Ciò è dovuto allo stringente controllo esercitato dalla politica sui media, che occupa con armi di distrazione di massa come l'Imu e lo ius soli per nascondere la sua inettitudine nell'affrontare le vere emergenze di un paese che cambia e che essa non riesce più a rappresentare.

venerdì 3 maggio 2013

Il vecchio che avanza

Si può dire di tutto su Giorgio Napolitano. Si può dire che è di un'altra generazione da rottamare, si può dire che ha fatto male ad accettare la rielezione, si può essere più o meno in disaccordo con le sue idee e i suoi comportamenti da capo dello stato. Ma di certo non si può dire che non sia una persona intelligente. Anche Grillo ha dovuto riconoscerlo dopo il loro incontro nel primo giro di consultazioni. Tra i possibili premier che Napolitano poteva scegliere (in primis Amato, forse più apprezzato dal Pdl), ha scelto il 46enne Enrico Letta. Uno dei presidenti della repubblica più vecchi del mondo ha conferito l'incarico di presidente del consiglio ad uno dei più giovani.

L'età non è un dato di poco conto: è il modo di Napolitano di rispondere alle istanze di cambiamento così fortemente espresse dall'opinione pubblica. O dalla sua parte preponderante. Non dall'elettorato del Pdl che, per dirla con Marco Travaglio, seguirebbe Berlusconi anche se domani dicesse di voler fare la dittatura del proletariato. Non da chi ha votato Monti, persone di destra che non sopportano più l'avanspettacolo berlusconiano. Sicuramente quella domanda di profondo rinnovamento proveniva dagli elettori del Pd, di Sel, del Movimento 5 Stelle e da chi si è rifiutato di andare alle urne. Quindi, dalla maggioranza degli italiani.

Se le forze politiche guidate da Vendola e Grillo hanno mantenuto la barra dritta su questa strada, il Pd ha tragicamente tradito i suoi elettori. Durante l'ultima campagna elettorale e nelle prime settimane della nuova legislatura, il Pd aveva dato i primi segni di rottura con il passato: ha fatto le primarie sia per il capo della coalizione di centrosinistra sia per i parlamentari, ha messo nelle proprie liste frotte di giovani dalla faccia pulita, ha allontanato certi impresentabili per motivi giudiziari e, soprattutto, si è presentato in forte opposizione al berlusconismo, con il quale mai prima era stato così duro. Bersani, in prima persona, portava avanti questo nuovo corso del Pd e ha continuato a farlo anche dopo la sonora sconfitta delle urne. Quando però è arrivato il momento di mettere in gioco le sue abilità di politico con una lunga esperienza ha fatto un buco nell'acqua e si è preso insulti da tutti. Questo perché ha stravolto il giudizio dato su Grillo e il M5S in campagna elettorale e ha cominciato a inseguirli, chiedendo loro i loro voti come se gli fossero dovuti, data la supposta superiorità morale della sinistra, quando si sapeva fin dall'inizio che non li avrebbe mai avuti. Quindi si è arrivati all'elezione del capo dello stato, quando quella parte del Pd che ha sempre strizzato l'occhio al centrodestra ha ricominciato ad agitarsi e ha platealmente rivendicato il comando, spaccando il partito.

Come era ormai chiaro da tempo, la partita del Quirinale era indissolubilmente legata a quella per il nuovo governo e così è stato. La convergenza su Napolitano ha aperto la strada all'ipotesi governissimo o inciucio o larghe intese o grande coalizione, come dir si voglia, ce n'è per tutti i gusti. Eletto il capo dello stato, in un battibaleno, è stato conferito l'incarico a Enrico Letta e, da lì all'entrata in carica del nuovo governo, è passato pochissimo. La velocità delle operazioni di formazione dell'esecutivo e il disbrigo dei molteplici passaggi istituzionali è stata fulminea rispetto alla consuetudine e anche questo è un altro modo di Napolitano & co. di rispondere a modo loro alle domande di cambiamento, oltre alla fretta per dare il proverbiale segnale ai mercati e all'Europa. La strategia di Re Giorgio è stata subito mutuata da Letta che ha composto una squadra di governo giovane e con una notevole componente femminile, tra cui il primo ministro di colore della storia d'Italia. Un tentativo di dare la parvenza di una qualche riduzione dei tanto vituperati costi della politica è la decisione di abolire gli emolumenti per quei ministri che ricevono già l'indennità parlamentare.

Ma tutto ciò è vero cambiamento? È una reale rottura con il passato? Certo che no. Quelle di Napolitano e Letta sono mere opere di maquillage, atti simbolici che non cambiano la sostanza del governo appena varato, degno erede del precedente. Esso continuerà a percorrere la strada dell'austerità voluta dall'Europa senza poter intervenire sui mali atavici del nostro paese, come l'evasione fiscale, la corruzione e, più in generale, il deficit di legalità, perché Berlusconi impedirà qualsiasi passo avanti in tal senso, essendo preoccupato più dai suoi processi che dai problemi dell'Italia. Chi deve rammaricarsene di più è il Pd che ha stravolto le promesse fatte ai propri elettori e ha preferito finire di nuovo nelle braccia di Berlusconi, in piena sindrome di Stoccolma, piuttosto che aprire un dialogo alla pari con il M5S. Come disse qualcuno, con questi qui non vinceremo mai.