mercoledì 26 settembre 2012

Il manganello della finanza

Oggi è stata una giornata emblematica di quello che sta accadendo in questi anni di crisi che morde soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Gli stessi strati sociali che oggi sono scesi in piazza in Spagna, per far sentire la propria voce contro i tagli e l'austerità del governo Rajoy. Migliaia di indignados hanno sfilato per il secondo giorno consecutivo nel centro di Madrid e tentato di raggiungere il Parlamento, con il solito contorno di scontri con le forze dell'ordine. La stessa scena si è vista in Grecia, dove i due maggiori sindacati del paese avevano indetto per oggi uno sciopero generale, trasformatosi in manifestazione condita anche qui da scontri con la polizia.
Ma i celerini non sono stati gli unici a rispondere con prepotenza alle legittime rivendicazioni della piazza. I listini delle borse europee di oggi sono un bollettino di guerra: Madrid la peggiore con un -3,92%, Milano si accoda con un -3,29. I giornali strombazzano: "Bruciati 133 miliardi".
Il popolo ha alzato la sua flebile voce e gli operatori finanziari hanno pensato bene di mettere subito mano al manganello delle borse. In questo "mercoledì nero" non è accaduto nulla di diverso da quello che sta succedendo da quando è iniziata questa crisi economica. La finanza e i mercati hanno acquisito un enorme potere e ora controllano i parlamenti nazionali e l'Unione Europea, per mezzo dello spread. Il governo distrugge il welfare, abolisce l'articolo 18 e taglia sulla sanità e l'istruzione? Bene, bravo, bis. E lo spread si abbassa. La gente scende in strada e si ribella? Pollice verso. E lo spread si alza.
Ma come è stata possibile questa cessione di sovranità nazionale a oscuri operatori di borsa? Tutto è iniziato negli anni 80, quando Reagan negli Usa e la Thatcher in Inghilterra hanno dato il via ad un'operazione di rimozione delle barriere poste al mercato e alle libertà dei capitali così faticosamente costruite dopo l'unica crisi (forse) peggiore di quella attuale, quella del 1929. In questi decenni la finanza ho operato sottotraccia, nell'ombra, facendo pressioni sulla politica affinché deregolamentasse sempre più la legislazione economica e finanziaria. Negli Stati Uniti, questo disegno è stato messo in pratica sia dai democratici, durante l'amministrazione Clinton specialmente, sia dai repubblicani. E tutto il resto del mondo dietro a prendere esempio. Illuso dalle false promesse della globalizzazione che avrebbe portato più benessere per tutti. Invece nel 2008 scoppia la crisi dei mutui subprime che, dagli Stati Uniti, si riversa sull'intero pianeta e, nel Vecchio Continente, si trasforma nell'attuale crisi dei debiti nazionali.
La finanza oggi sta prendendo di mira l'Europa perché è l'anello più debole dell'economia globale. Perché è un sistema pieno di contraddizioni, una federazione di stati mancata con una banca centrale impotente e scarsa legittimazione democratica. Nulla si risolverà se permane l'attuale immobilismo della politica europea. Due strade possiamo imboccare e dobbiamo farlo il più velocemente possibile: o si getta alle ortiche il sogno europeo e si torna agli stati nazionali nel pieno dei loro poteri, anche di battere moneta, o si costruisce un'Unione Europea che sia guidata da organi eletti e sia integrata economicamente e politicamente, non tenuta insieme solo da una moneta comune. Non muoversi significa cadere nel baratro, accentuando le disuguaglianze e l'instabilità sociale. Da cui, nel lungo periodo, nemmeno i poteri forti avrebbe da guadagnare.

sabato 1 settembre 2012

Eugenio Scalfari, Ezio Mauro, la destra e la sinistra

Il 12 novembre 2011 è una data storica. Le dimissioni di Berlusconi hanno segnato la fine non solo di un uomo che in qualche modo ha monopolizzato l'ultimo ventennio ma di un intero modo di concepire la politica, il berlusconismo. Decretarne oggi la fine può sembrare prematuro ma credo che l'arrivo del governo tecnico e della grande coalizione pd-pdl-terzopolo abbia provocato un grande sconvolgimento nell'agone politico e questo cambiamento in qualche modo va registrato.
I maggiori problemi stanno però nascendo all'interno della vecchia opposizione. Finché c'era il grande nemico, il despota, il dittatore da combattere le truppe della sinistra erano compatte. Certo, qualche screzio era sempre presente, ma tutto sommato, le posizioni di principio erano le stesse, gli argomenti, i modi con cui veniva attaccato l'avversario erano gli stessi. Negli ultimi mesi, invece, il governo Monti ha in parte normalizzato le tradizionali divisioni, costringendo le forze ricollegabili alla sinistra a riportare a galla la propria identità.
Questo è quello che sta accadendo anche all'interno della redazione di Repubblica dove, prima il fondatore Eugenio Scalfari e poi il direttore Ezio Mauro, davanti al conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale nei confronti della procura di Palermo per l'intercettazione di alcune telefonate del capo dello stato, hanno rinnegato anni di lotta antiberlusconiana e rimesso in discussione certe prese di posizione del passato solo perché la persona coinvolta nei nuovi scandali è il presidente della Repubblica e non quello del consiglio. Insomma, due pesi, due misure. Ma c'è di più. I maggiorenti del quotidiano di via Colombo sembrano avvertire la necessità di sentirsi di nuovo di sinistra, spiegando a tutti gli altri cosa rappresenta questo termine.
Scalfari, nei suoi consueti editoriali domenicali, difende a spada tratta l'operato del Colle. Lo fa citando leggi, interpretando commi. Subito le controparti (il costituzionalista Zagrebelsky sullo stesso quotidiano, Marco Travaglio sul Fatto) gli fanno notare gli errori marchiani che compie. Ma lui, incurante, continua sulla sua strada. Per carità, non è l'unico a prendere le parti di Napolitano. Tutti loro in realtà lo fanno perché credono che la tutela dell'"istituzione più importante" in questo momento, quella "che ha tolto l'Italia del baratro", quella che ha dato vita al governo tecnico, sia più importante della verità in sé. Dire che il conflitto di attribuzione sollevato dal Colle è sbagliato, secondo loro, contribuirebbe a mettere in pericolo la tenuta delle istituzioni, di cui Napolitano è il perno.
Sempre su Repubblica il direttore Ezio Mauro, dal canto suo, sceglie una posizione intermedia sul conflitto di attribuzione, sostenendo comunque la necessità di contrastare la «manovra contro il Quirinale», «uno dei pochi punti fermi della nostra democrazia». Ma Mauro non si ferma qui e accusa coloro che criticano il Quirinale di essere di destra, nei loro «linguaggi, comportamenti e pulsioni». Arriva pure a fare una lista della spesa dei valori appartenenti alla destra: «zero spirito repubblicano, senso istituzionale sottozero (come se lo Stato fosse nemico), totale insensibilità ai temi del lavoro, della disuguaglianza e dell'emancipazione».
Dai pareri di queste due voci del giornalismo italiano possiamo prendere spunto per chiederci, come fa Mauro, cos'è veramente la destra e cos'è veramente la sinistra.
Prendiamo, per esempio, il convincimento di Scalfari soprattutto, ma anche di Mauro, che le istituzioni italiane siano in grave pericolo e pertanto occorra proteggere il loro «perno», cioè il presidente della Repubblica Napolitano. In questo modo, pongono la necessità di tutelare l'istituzione del Colle sopra l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e quindi sopra lo stesso valore di giustizia. A questi signori vorrei dire che venire meno ai diritti e alla loro applicazione per un supremo senso dello stato non è un atteggiamento di una sinistra responsabile, ma traccia un preoccupante parallelo con quello che accadeva nella Russia di Stalin dove, per consentire il pieno sviluppo dello stato comunista, si calpestavano i più basilari diritti umani. Preferire l'integrità delle istituzioni alla certezza del diritto è una condotta dell'estrema sinistra, come preferire l'ordine interno assoluto all'applicazione dei diritti è di estrema destra.
Ezio Mauro, poi, oltre a fare un elenco dei valori della destra, bolla certi linguaggi come "di destra" (subito scimmiottato anche dal segretario pd Bersani con Grillo). E questo ci spinge a chiederci: cosa sono in definitiva destra e sinistra?
In base all'approccio che una forza politica ha con la storia e con i cambiamenti, la destra è quella conservatrice che preferisce rimanere nella tradizione mentre la sinistra è quella aperta alle novità, al progresso. E questo può essere un elemento di distinzione, ma poi vai a capire cosa è veramente progresso e cosa è veramente tradizione. E inoltre, il buon senso ci dice che l'ideale è saper soppesare le tradizioni buone e quelle cattive, come le innovazioni buone e quelle cattive.
In base alle loro idee rispetto al sistema economico, la destra è quella che spinge verso un minore intervento dello stato (quindi verso il liberismo), la sinistra invece preme per un maggiore ruolo pubblico (il cui estremo è il socialismo). Anche se questa distinzione in Italia vale quello che vale, vista la trasversalità delle teorie neoliberiste.
Una differenza sostenuta anche da Mauro nel suo articolo di fondo è il rapporto con la giustizia. Nei paesi normali, infatti, è la destra a chiedere condanne più severe e pene più certe, mentre la sinistra è più incline ad ascoltare le ragioni dei reclusi. In Italia è vero il contrario visto che fra l'ala destra del parlamento (prevalentemente, ma non solo) e le aule dei tribunali, si vedono gli stessi volti. E poi in realtà, anche la sinistra vuole una giustizia più efficace, ma se la destra la chiede soltanto per i piccoli criminali, la sinistra si aspetta che gli stessi principi valgano anche per i colletti bianchi della politica e dell'economia.
Qualcuno dice che la sinistra è per l'uguaglianza e la destra per la libertà. Ma, la storia lo dimostra, l'una è impossibile senza l'altra.
Secondo me, la diversità definitiva tra destra e sinistra sta nella loro idea di società, nella concezione della comunità, delle persone nel loro vivere insieme. È di destra pensare che le altre persone siano avversari, che per farcela occorra farcela da soli, lottando contro gli altri. È di destra lasciare che sia la legge del più forte a dettare come vanno le cose. È di sinistra, invece, puntare sulla solidarietà fra gli individui, sul "farcela insieme", sullo stare uniti e non lasciare indietro nessuno. Questo secondo me distingue la destra dalla sinistra. Ed è per questo che io sono di sinistra. Per quello che vale.