Negli ultimi mesi, a livello mediatico, è passato un messaggio tanto dirompente quanto erroneo: che il mancato varo del “governo del cambiamento” sia da imputarsi esclusivamente al Movimento 5 Stelle che non ha voluto in alcun modo collaborare con il Pd. Ma le condizioni poste da quest’ultimo erano davvero irricevibili.
L’opinione pubblica incolpa il M5S perché fin da subito ha detto di non volersi mischiare con i partiti responsabili dello sfascio del paese, mentre il Pd è apparso l’eroe pronto a immolarsi per il bene collettivo. In realtà, non è andata proprio così. Il Pd ha da subito trattato il M5S come una costola della sinistra, un Bertinotti qualsiasi, facendo promesse che assomigliavano più a slogan che a serie prese di posizione. Il centrosinistra ha improvvisamente scoperto temi come l’ambiente, la democrazia partecipata, i costi della politica su cui ha speso però parole vuote e piuttosto generiche. Inoltre, fra i famosi “otto punti”, Bersani ha indicato l’«urgenza» di una legge per regolamentare la vita interna dei partiti, obbligandoli ad adottare atti costitutivi e statuti, quindi organismi direttivi e regole interne. Non esattamente una cosa che possa accettare il M5S, con i suoi principi di democrazia diretta e interazione fluida, non mediata.
Ma il punto fondamentale di questo corteggiamento è il tipo di richiesta avanzata dai democratici. Il Pd ha messo sul piatto alcune monete di scambio per accaparrarsi i voti dei 5 stelle, che erano dovuti, dal loro punto di vista. Non ha, come avrebbe dovuto fare, avviato un dialogo alla pari, magari per un governo tecnico con il compito di mettere in atto i punti programmatici in comune alle due forze politiche. E non lo ha fatto, per un semplice motivo: non lo ha voluto fare. Davvero qualcuno può pensare che quei 101 che non hanno votato Prodi come presidente della repubblica e, più in generale, quella parte del Pd che ha spinto fin da subito per un accordo con il Pdl, avrebbe potuto accettare un governo con Pd e 5 stelle sullo stesso piano? Certo che no.
La storia per cui è tutta colpa del M5S è una favoletta che il Pd si racconta per non guardare alla sua drammatica situazione interna. Un partito diviso su tutto, con talmente tante anime da non averne nessuna. Un partito dove 101 persone affermano in assemblea che l’indomani avrebbero votato un candidato che poi, nel segreto dell’urna, tradiscono. E non un candidato qualsiasi, ma Prodi, uno dei fondatori del Pd e l’unico che è riuscito a sconfiggere Berlusconi non una, ma due volte. Un partito che non rispecchia la sua base, sicuramente più a sinistra e più desiderosa di cambiamento di chi la rappresenta in parlamento. È vero, come viene spesso ripetuto dai democratici, che Pdl e M5S sono due partiti anomali per l’importanza vitale rivestita dal loro leader per le sorti della forza politica, ma anche un partito con tutti i difetti del Pd è difficile da trovare negli altri paesi occidentali.
L’opinione pubblica incolpa il M5S perché fin da subito ha detto di non volersi mischiare con i partiti responsabili dello sfascio del paese, mentre il Pd è apparso l’eroe pronto a immolarsi per il bene collettivo. In realtà, non è andata proprio così. Il Pd ha da subito trattato il M5S come una costola della sinistra, un Bertinotti qualsiasi, facendo promesse che assomigliavano più a slogan che a serie prese di posizione. Il centrosinistra ha improvvisamente scoperto temi come l’ambiente, la democrazia partecipata, i costi della politica su cui ha speso però parole vuote e piuttosto generiche. Inoltre, fra i famosi “otto punti”, Bersani ha indicato l’«urgenza» di una legge per regolamentare la vita interna dei partiti, obbligandoli ad adottare atti costitutivi e statuti, quindi organismi direttivi e regole interne. Non esattamente una cosa che possa accettare il M5S, con i suoi principi di democrazia diretta e interazione fluida, non mediata.
Ma il punto fondamentale di questo corteggiamento è il tipo di richiesta avanzata dai democratici. Il Pd ha messo sul piatto alcune monete di scambio per accaparrarsi i voti dei 5 stelle, che erano dovuti, dal loro punto di vista. Non ha, come avrebbe dovuto fare, avviato un dialogo alla pari, magari per un governo tecnico con il compito di mettere in atto i punti programmatici in comune alle due forze politiche. E non lo ha fatto, per un semplice motivo: non lo ha voluto fare. Davvero qualcuno può pensare che quei 101 che non hanno votato Prodi come presidente della repubblica e, più in generale, quella parte del Pd che ha spinto fin da subito per un accordo con il Pdl, avrebbe potuto accettare un governo con Pd e 5 stelle sullo stesso piano? Certo che no.
La storia per cui è tutta colpa del M5S è una favoletta che il Pd si racconta per non guardare alla sua drammatica situazione interna. Un partito diviso su tutto, con talmente tante anime da non averne nessuna. Un partito dove 101 persone affermano in assemblea che l’indomani avrebbero votato un candidato che poi, nel segreto dell’urna, tradiscono. E non un candidato qualsiasi, ma Prodi, uno dei fondatori del Pd e l’unico che è riuscito a sconfiggere Berlusconi non una, ma due volte. Un partito che non rispecchia la sua base, sicuramente più a sinistra e più desiderosa di cambiamento di chi la rappresenta in parlamento. È vero, come viene spesso ripetuto dai democratici, che Pdl e M5S sono due partiti anomali per l’importanza vitale rivestita dal loro leader per le sorti della forza politica, ma anche un partito con tutti i difetti del Pd è difficile da trovare negli altri paesi occidentali.
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