mercoledì 17 giugno 2020

La morte di George Floyd e il razzismo negli Usa

Testo del video prodotto per Muovere Le Idee

Sono giorni di indignazione e proteste negli Stati Uniti, dopo l’ennesima uccisione di un afroamericano innocente per mano della polizia.

Qui parleremo di quello che sta accadendo negli Usa, delle manifestazioni contro la polizia e del razzismo della società americana

IL CASO FLOYD

È la sera di lunedì 25 maggio, sono passate da poco le otto di sera, George Floyd, un afroamericano di 46 anni, si trova in auto insieme a due persone sulla 38esima strada di Minneapolis, in Minnesota. Viene raggiunto da due commessi di un piccolo negozio dove poco prima aveva acquistato delle sigarette, che lo accusano di avere usato una banconota falsa da 20 dollari. Lui nega, quelli se ne vanno e chiamano la polizia. Arrivano due agenti seguiti dopo poco da altri due, raccontano di trovare Floyd sotto effetto di alcol o droghe ma disarmato, lo fanno uscire dalla sua auto, lo ammanettano e lo mettono a terra, tentano quindi di portarlo sulla volante della polizia, lui si rifiuta e allora lo fanno stendere a terra a faccia in giù. In tre si mettono sopra di lui, uno sulle gambe, uno sul torace e uno, l’agente Derek Chauvin, gli mette addirittura un ginocchio sul collo. Rimane così per 8 minuti e 46 secondi, nonostante lo stesso Floyd continui a ripetere di non riuscire a respirare. Gli resta sopra anche quando l’uomo perde coscienza. È così che lo trova l’ambulanza, chiamata dagli stessi agenti per una ferita alla bocca di Floyd. Viene dichiarato morto poco dopo in un vicino ospedale. L’autopsia ufficiale ascrive la causa del decesso ad un arresto cardiocircolatorio, affermando che non ci siano prove che sia stato causato dalla pressione esercitata dall’agente sul suo collo. I risultati di un’autopsia indipendente invece sembrano confermare che la morte sia stata causata proprio dall’asfissia per la violenza subita. I quattro agenti responsabili sono stati licenziati, Chauvin è stato arrestato già poche ore dopo il fatto con l’accusa di omicidio, gli altri tre poliziotti sono stati successivamente incarcerati e accusati di complicità.

LE PROTESTE

La morte di Floyd, mostrata al pubblico quasi in diretta grazie ai video dei passanti, ha scatenato fin da subito un’ondata di proteste in tutti gli Stati Uniti contro le violenze della polizia verso i neri e contro il razzismo che ancora esiste nel paese. Non è la prima volta che succede. Quasi ogni anno scoppiano manifestazioni di questo tipo quando episodi simili balzano agli onori delle cronache. La storia è sempre la stessa: a morire è sempre un afroamericano disarmato e spesso innocuo, a sparare è sempre un agente di polizia che raramente viene condannato o anche solo licenziato per quello che ha fatto. Dei disordini scoppiarono dopo la morte del diciottenne Michael Brown nel 2014 a Ferguson (Missouri), ucciso dopo un diverbio con un agente. Nel frattempo si era già diffuso il movimento Black Lives Matter, in seguito all’assoluzione di un uomo che aveva sparato ad un ragazzo nero di 17 anni, Trayvon Martin, che camminava col cappuccio della felpa alzato sulla testa.

Questa volta però le proteste sono state molto più estese, perlopiù pacifiche, benché siano state spesso trattate dalla polizia molto duramente, ricorrendo a gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti. Un giornalista della Cnn è stato addirittura arrestato in diretta mentre faceva semplicemente il suo lavoro. Alcune manifestazioni sono in effetti sfociate in violenze, con attacchi alla polizia, vetrine dei negozi infrante e l’assalto ai grandi magazzini di New York. Sono state almeno tre le vittime finora, il coprifuoco è stato imposto in 42 città, la Guarda Nazionale è intervenuta in 15 stati. Il presidente Trump, sebbene abbia condannato la morte di Floyd, ha avuto parole molto più dure nei confronti dei manifestanti, chiamandoli “criminali” e minacciando di “iniziare a sparare” in caso di saccheggi, oltre a paventare l’invio dell’esercito nelle strade.

RAZZISMO SISTEMICO

Il caso di Floyd non è stato un episodio isolato. I dati ci dicono che, sebbene i neri rappresentino solo il 13% della popolazione degli Stati Uniti, costituiscono il 40% degli innocenti uccisi per mano della polizia. Per questo si può parlare di razzismo. E si tratta di un razzismo connaturato alla stessa società americana. Noi fatichiamo a capirlo perché l’Italia è diventata prima una democrazia compiuta e solo dopo, negli ultimi decenni, ha visto arrivare milioni di persone di etnia diversa che ha dovuto integrare, con lo stato pronto a vigilare che non si verificassero discriminazioni su base razziale. In America invece vi è stata da subito la presenza di due etnie, quella dei bianchi europei colonizzatori e quella degli schiavi neri africani, e solo successivamente è nato lo stato, che non ha potuto far altro che fotografare la situazione esistente, con l’enorme contraddizione di dichiarare tutti gli uomini uguali e consentire allo stesso tempo l’esistenza della schiavitù. Questa durò fino al 1865, anno in cui si concluse la guerra di secessione americana, nella quale uno dei terreni di scontro fu proprio la volontà degli stati del Sud di voler mantenere la schiavitù. Con la loro sconfitta, essi dovettero cedere e abolirla, ma la discriminazione verso gli afroamericani era appena cominciata. Con gli anni si sviluppò un sistema di segregazione razziale: bianchi e neri erano separati in tutti gli ambiti della convivenza civile, frequentavano scuole diverse, lavoravano in fabbriche diverse, compravano in negozi diversi, erano separati sui trasporti pubblici, al cinema, negli ospedali. Vivevano addirittura in differenti zone della città, con i neri nei piccoli appartamenti malandati del centro e i bianchi nelle villette dei quartieri residenziali della periferia. Questo sistema cominciò a crollare quando una signora di nome Rosa Parks si rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus ad un bianco salito dopo di lei, che lo reclamava in base alle regole dell’epoca. Questa vicenda rappresenta simbolicamente l’inizio del movimento per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti, guidato da figure come quelle di Martin Luther King e Malcolm X. Tutto questo portò nel 1964 ad una legge che vietò ogni forma di segregazione razziale. Ma le cose non cambiarono da un giorno all’altro e quel periodo ha lasciato dei segni visibili ancora oggi, per esempio nel modo di comportarsi di alcune frange della polizia. Per questo negli Usa si può parlare di razzismo sistemico: un razzismo insito nel dna della società americana, che verrà sradicato del tutto solo col tempo e con la lotta per l’uguaglianza e per i diritti civili di tutti, di cui le proteste in corso sono soltanto un capitolo.

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