domenica 11 maggio 2014

Le elezioni europee


Con alcuni amici, ho costituito un gruppo denominato Muovere Le Idee. Il nostro intento è di spiegare la politica attraverso video brevi e leggeri da diffondere sul web.
Ecco la versione originale, scritta da me, del copione del primo video.

Si dice che questa è la prima campagna elettorale europea in cui si discute davvero di temi europei. In realtà si parla solo di Euro e dei compiti e castighi che l’Europa ci assegna. Ma il funzionamento dell’Unione Europea è sconosciuto a molti.

Dal 1979, i cittadini dell’unione sono chiamati ad eleggere il parlamento europeo. Questa definizione è però fuorviante dal momento che il parlamento dell’unione non assume le decisioni da solo.
Quello europeo è l’unico parlamento al mondo che non ha il potere di fare proposte di legge. Questo compito spetta alla Commissione che crea le proposte di legge e le invia al Parlamento Europeo e al Consiglio dell’Unione Europea, che le devono approvare nello stesso testo.
La commissione europea è il governo dell’unione, il presidente della commissione è scelto dal Consiglio europeo. Egli dovrà poi nominare i commissari (il corrispettivo dei ministri) e ottenere la fiducia sia del Consiglio dell'Ue sia del Parlamento.
Il Consiglio dell’Unione Europea è l’organo che riunisce i ministri dei 28 stati membri della materia in discussione. 
Il Consiglio dell’Ue non è da confondere con il Consiglio europeo, che è l’organo che riunisce i capi di stato o di governo di tutti i paesi membri ed è il vero motore dell’unione in quanto stabilisce le priorità politiche, specie quelle volte a favorire l’integrazione, e non si deve confondere nemmeno con il Consiglio d’Europa, un’organizzazione esterna all’Unione Europea che promuove i diritti umani.

Dal 22 al 25 maggio si tengono in tutta l’unione le elezioni per scegliere i 751 membri del nuovo parlamento.
In Italia, le urne apriranno domenica 25 maggio dalle 7 alle 23. Il sistema elettorale italiano per il parlamento europeo è di tipo proporzionale, quindi i 73 seggi spettanti all’Italia, saranno ripartiti in base ai voti presi da ogni partito che abbia superato la soglia del 4% a livello nazionale. Il territorio italiano è diviso in 5 circoscrizioni: nord-ovest, nord-est, centro, sud e isole. In ciascuna di esse, ogni partito presenta una propria lista di candidati, tra cui l’elettore può esprimere fino a 3 preferenze e, questa è la novità di questa tornata elettorale, almeno una deve essere di sesso diverso dalle altre, pena l’annullamento della terza preferenza.
I partiti che si presentano alle elezioni europee sono quelli nazionali e, una volta eletti, confluiscono in raggruppamenti formati con i partiti degli altri paesi.

Nell’emiciclo del parlamento europeo, a farla da padroni sono la sinistra e la destra europee: il partito di Socialisti e Democratici, che ha aggiunto quest’ultimo termine al proprio nome proprio per accogliere il Partito Democratico italiano, e il Partito Popolare Europeo, in cui convergeranno Forza Italia, Nuovo Centro Destra e Südtiroler Volkspartei. Al centro troviamo l’Alde, i liberali europei, per i quali si presenta in Italia Scelta Europea, una lista di cui fanno parte Scelta Civica, Fare per fermare il declino e Centro Democratico. Nell’ala sinistra abbiamo anche i Verdi, il cui rappresentante italiano è Green Italia, e la Sinistra Unita, per la quale nel nostro paese si presenta la lista L’Altra Europa con Tsipras, promossa da alcuni intellettuali e partiti della sinistra. Alla destra del Ppe, invece, ci sono i conservatori, gli Euroscettici, in cui troviamo la Lega Nord, e il gruppo dei “non iscritti”, in cui sono presenti gruppi che non si riconoscono nelle altre formazioni e sono spesso anch’essi euroscettici. Nei “non iscritti”, una sorta di gruppo misto europeo, probabilmente confluiranno il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia.
Per la prima volta, votare per un partito significherà votare anche per il candidato presidente alla Commissione europea che quel partito propone. I candidati si sfideranno in un confronto tv in Eurovisione il 15 maggio, condotto da Monica Maggioni, direttrice di RaiNews24.

mercoledì 26 febbraio 2014

Le ragioni della staffetta e il nuovo governo

In men che non si dica, ieri il governo Renzi è entrato nel pieno dei suoi poteri. Ciò che fino a qualche settimana fa sembrava fantascienza è diventato realtà. Il segretario Pd si rimangia mesi di promesse, dal non voler prendere il posto di Letta al non voler arrivare a Palazzo Chigi senza passare dalle urne. E all'improvviso, l'orizzonte della legislatura si sposta alla sua scadenza naturale, il 2018. Cos'è accaduto in pochi giorni per determinare addirittura un cambio di governo?

L'ipoteca all'esecutivo Letta viene posta l'8 dicembre, il giorno delle primarie per la scelta del segretario del Partito Democratico. Il sindaco di Firenze le stravince, afferma che l'indomani l'agenda del governo cambierà ma promette la fiducia a Letta, che viene confermata dalle camere. In molti credono che il presidente del consiglio non possa stare tranquillo, ma il rischio che tutti evocano sono le elezioni in primavera, non di certo una staffetta a Palazzo Chigi.

Ottenuta la forte spinta propulsiva delle primarie, Renzi deve mostrare di non stare con le mani in mano e quindi si butta sulla legge elettorale. Ne propone tre tipi, tutti già sostenuti dalle forze parlamentari. I 5 stelle si chiamano fuori dalla discussione, Ncd fa melina e chi si butta a capofitto sull'opportunità di tornare a pieno titolo nella scena politica è Berlusconi. I due si riuniscono al Nazareno, sede del Pd, e allestiscono una legge a loro misura.

Intanto Letta, al governo, si tira fuori dalla questione legge elettorale e prepara il rilancio dell'esecutivo, già promesso dopo la fiducia parlamentare di metà dicembre. Rimanda il vertice con il presidente turco Erdogan perché "Impegno 2014" è la sua priorità assoluta. "Datemi dieci giorni", avverte. Ci vorrà più di un mese. Il presidente del consiglio presenterà il suo nuovo programma di governo il giorno prima di annunciare le sue dimissioni. Troppo tardi, l'establishment gli ha già preparato il sostituto.

Sì, perché a spingere Renzi verso Palazzo Chigi sono in molti. Berlusconi, innanzitutto, che in questo modo brucia il suo più grande competitor alle prossime elezioni, mentre è sicuro che non gli farà sgarbi, pena la rottura del patto sulla legge elettorale. Se ad Alfano va bene tutto (visto che non si può permettere di andare alle elezioni, non ha alcun potere contrattuale), nel Pd l'area cuperliana sconfitta alle primarie trova con Renzi al governo il modo, ristabilizzando una legislatura claudicante, di salvare la maggioranza bersaniana nei gruppi parlamentari, quindi anche di controllare il segretario. E, perché no, anche di bruciare l'avversario interno più temuto.

L'ultimo sponsor (e garante) che rimaneva a Letta era il presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Il capo dello stato era l'ultimo giapponese che continuava a difendere l'indifendibile Letta, contro tutto e tutti. Almeno fino alle rivelazioni del libro di Alan Friedman che, ricostruendo i mesi antecedenti alle dimissioni di Berlusconi e all'avvento di Monti nel novembre 2011, scopre che Napolitano aveva sondato già da luglio la disponibilità del presidente della Bocconi ad avvicendare il leader Pdl alla guida dell'esecutivo. Una non notizia, di per sé: nello stesso periodo, i giornali davano la sostituzione come imminente. Ma abbastanza per scatenare un fuoco di fila da Forza Italia e dal M5s, che aggiunge un ulteriore tassello alla propria richiesta di impeachment. Ma a mettere in mora l'autorità del presidente della repubblica non sono quei partiti che già non nascondevano il loro malcontento verso il suo operato, ma è la fonte della notizia: il Corriere, il giornale che rappresenta il salotto buono degli industriali e dei famigerati "poteri forti".

Infine, Renzi. A lui spettava l'ultima parola sul passaggio al governo. Se non avesse voluto farlo, non l'avrebbe fatto. Ma ha capito che le elezioni sarebbero state difficili da provocare, senza assumersene la responsabilità. Inoltre, crede fermamente nelle sue capacità salvifiche, è convinto di avere il tocco magico di Re Mida, di poter arrivare nella stanza dei bottoni e fare sfracelli. E poi, lasciar passare troppo tempo in quel limbo in cui si trovava, lo avrebbe impaludato e avrebbe frenato la sua forza elettorale in una successiva campagna.

Ed eccoci al governo Renzi I. Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà un cammino tortuoso per l'ormai ex sindaco di Firenze. Non appena si cominciava ad intravedere ciò che sarebbe successo, i sondaggi hanno registrato un tonfo per il Pd, chiaro segno che l'opinione pubblica non ha apprezzato l'ennesima manovra di palazzo e soprattutto lo sfratto, in una modo così brutale, di Letta. Poi la lista dei ministri: un'accozzaglia di rappresentanti di questo e quel partito, di questa e quella lobby, di rottamatori e rottamati tutti insieme appassionatamente. Nel discorso della fiducia, è stato inutile rompere le regolette del bon ton parlamentare per propinare le solite promesse a vuoto, senza alcuna proposta serie. Infine, il voto al Senato: 169 voti a favore, solamente 8 in più di quelli necessari e 4 in meno di quelli che ha ottenuto Letta a dicembre.

Dunque, è un governo già traballante in partenza? Può essere. Dalla sua però ha una situazione economica in leggero miglioramento (per il quale non dobbiamo certo ringraziare gli ultimi governi), anche se la disoccupazione e il disagio nel paese rimarranno gravi ancora per un bel po'. È possibile che Renzi riesca a varare qualche riforma spot che possa mantenerlo sulla cresta dell'onda ma difficilmente riuscirà ad avviare quel cambiamento radicale che molti si aspettano, soprattutto con una maggioranza così eterogenea. Quindi la vita del governo, e di conseguenza quella della legislatura, non ha esattamente le gambe corte (del resto tutte le volte che il parlamento rischia di andare a casa, c'è una forza fisiologica a salvare lo status quo, con tutti i privilegi e prebende che garantisce) ma sarà difficile arrivare fino al 2018, con un parlamento in burrasca e un paese che non lo sopporta più.

sabato 7 dicembre 2013

La povertà, il primo problema

In questi giorni sta facendo molto discutere il rapporto pubblicato dal Censis sulla società italiana (definita "sciapa", infelice, furba e immorale), ma forse il dato più importante che è stato diffuso nell'ultima settimana è quello dell'Eurostat sulla povertà. Secondo l'istituto di statistica europeo, nell'eurozona, l'Italia è seconda solo alla Grecia per il rischio di povertà e di esclusione sociale delle famiglie.
In base ai dati che si riferiscono al 2012 (quindi possiamo solo presumere che oggi siamo messi peggio), nel nostro paese il 29,9% della popolazione, ossia 18,2 milioni di persone, sono a rischio povertà. Per essere definiti a "rischio povertà", occorre soddisfare tre requisiti:
  • vivere in una famiglia con un reddito inferiore al 60% rispetto al reddito medio del paese a cui si fa riferimento. Meno di mille euro al mese, per farla breve;
  • avere "forti mancanze materiali", che significa non possedere risparmi per pagare spese impreviste, non riuscire a riscaldare la casa, non possedere un'auto;
  • vivere in una famiglia con una bassa intensità di lavoro, i cui membri quindi non riescono a lavorare a tempo pieno.
È vero che il dato potrebbe essere leggermente falsato dall'evasione fiscale ma, approsimativamente, possiamo affermare che un terzo della popolazione non riesce a lavorare abbastanza per permettersi una vita dignitosa e questo dovrebbe essere il tema principale nel dibattito politico. Abbiamo capito che l'uscita dalla crisi non è poi così vicina e la disoccupazione dovrebbe addirittura aumentare nel 2014, quindi non possiamo aspettare che l'economia riparta (sempre che si decida a farlo). Come possiamo tamponare la situazione della povertà? Con un reddito minimo garantito, uno strumento di cui sono dotati quasi tutti i paesi della zona euro (tranne Italia e Grecia, guarda caso). Qualche centinaia di euro erogati dallo stato in cambio dell'obbligo di accettare qualsiasi lavoro venga proposto. In presenza di una rete di protezione sociale così forte, si potrebbero anche abbattere alcune tutele che rendono il mercato del lavoro troppo rigido, in modo da far muovere l'economia più rapidamente. Rimane solo il problema dei fondi, che si possono recuperare attuando una serie politica di redistribuzione della ricchezza e dei redditi (i ricchi italiani sono i più ricchi d'Europa, vedi link), accompagnata da una stretta sull'evasione fiscale.
La strada per risolvere il problema è chiara, l'unica cosa che manca è la volontà politica.

sabato 19 ottobre 2013

Se un giorno Berlusconi accoltellasse un passante

Riporto un estratto dell'intervento di Marco Travaglio alla manifestazione "Tutti in Piedi" del 17/06/2011 (guarda il video).
«Io immagino cosa succederebbe se un giorno (...) così, per sfizio, per vedere l'effetto che fa, [Berlusconi] accoltellerà un passante. Io immagino il momento in cui conficca il pugnale nella schiena del passante e passa di lì Ghedini e dice: "Beh, è chiaro, è un'arma giocattolo, lui è uno zuzzurellone!", poi passa Sallusti e dice: "Anche Kennedy accoltellava Marilyn Monroe, anche Vendola nelle spiagge dei nudisti ne accoltella uno dopo l'altro" e poi Ferrara: "Via, basta moralismi! Chi non ha mai accoltellato qualcuno per la strada?!" e infine Belpietro: "Cosa ci faceva quel passante con la schiena puntata contro il pugnale del presidente del consiglio?! E chi l'ha mandato?!"»
Questa storiella è chiaramente un parodosso ma aiuta a comprendere a quale livello parossistico sia arrivato il dibattito politico italiano. La logica è resa subalterna alla convenienza politica. La verità oggettiva non importa, conta solo avere la risposta pronta, surclassare l'avversario nella discussione. Chiediamoci cosa penserebbe di noi uno straniero che arrivasse oggi in Italia e vedesse uno a caso dei nostri talk show: ci prenderebbe per matti. E forse non avrebbe tutti i torti.

giovedì 10 ottobre 2013

Una nuova idea di lavoro

Lo potete chiedere all'economista o all'operaio, all'avvocato o al commerciante, al politico o all'immigrato. Alla domanda su quale sia attualmente la principale priorità politica vi risponderanno tutti il lavoro. Economisti e politici si spingono più in là e ripetono come fosse un mantra che, per creare occupazione, è indispensabile che l'economia cresca. Peccato che, dal 1977 al 2009, gli occupati in valore assoluto sono aumentati del 15% a fronte di un Pil più alto del 1300% (dati Istat). Inoltre, resta da capire come sia possibile una crescita infinita all'interno di un mondo con risorse in numero finito.

Oggi ci troviamo nel bel mezzo della peggiore crisi economica di sempre e la disoccupazione è al 12,2% (quella giovanile addirittura al 40,1) ma, a differenza di quanto possiamo pensare, i valori del passato non si discostano di molto da quelli attuali: tra il 1977 (anno di inizio delle serie storiche dell'Istat) e il 2009, il tasso di disoccupazione si è attestato su una media del 9,5% e, già nel triennio che va dall'87 all'89, aveva raggiunto la soglia del 12% per poi oscillare tra il 10 e l'11 per tutti gli anni '90. Si potrebbe pensare che la crisi non stia facendo molti danni. In realtà il tasso di disoccupazione non riesce a cogliere interamente il disagio legato al mondo del lavoro.

Infatti include solo chi non ha un'occupazione e ne cerca una, ma ci sono numerose altre categorie di persone che vengono colpite in qualche modo dal problema della “mancanza di lavoro”: gli scoraggiati (che non hanno un lavoro e non lo cercano più), i cassintegrati, coloro che sono costretti ad un part-time quando vorrebbero lavorare a tempo pieno e i precari (perlopiù giovani). Secondo i calcoli di Ires-Cgil, tutta questa area del “disagio” (inclusi i disoccupati) comprende 9 milioni di persone. Non pochi su una popolazione di 60. E questi dati difficilmente miglioreranno nel lungo periodo. La competitività dei paesi emergenti e in via di sviluppo grazie al basso costo del lavoro e la sempre maggiore automazione della produzione rendono la crisi che stiamo vivendo di carattere strutturale.

Forse è giunto il momento di cambiare il concetto di lavoro così come l'abbiamo concepito fino ad oggi. Il sistema economico capitalista ci spinge a considerare il lavoro come un fine in sé: otto ore al giorno in cui non importa cosa si fa, ma quanto si guadagna, che deve essere abbastanza per soddisfare i nostri bisogni. In questa logica, un lavoro vale l'altro. La sua utilità non è importante, importa solo quanto è remunerativo. Costruire armi vale quanto assistere gli anziani, ideare pubblicità ha tanta dignità quanto coltivare cibo, combattere in Afghanistan è uguale ad insegnare nelle scuole. Nessuno fa dei casi di coscienza sulla possibilità che certe occupazioni siano giuste o meno.

Ora, immaginiamo di naufragare su un'isola deserta e di realizzare che nessuno verrà in nostro soccorso, dovremmo quindi organizzarci per sopravvivere. Cosa faremmo? Quale sarebbe la priorità? Stabilire che tutti devono lavorare un certo numero di ore senza considerare il lavoro che c'è da svolgere oppure stabilire ciò che c'è da fare e poi suddividersi i compiti? Perché questo discorso non dovrebbe valere anche nel nostro sistema economico? È un paradosso che la maggior parte della popolazione lavori otto e più ore al giorno quando ci sono milioni di persone a spasso, che non possono dare il loro contributo allo sviluppo della società e non riescono a vivere dignitosamente. “Lavorare meno per lavorare tutti” non dovrebbe essere solo uno slogan, ma un'ovvietà.

Dobbiamo ribaltare la logica per cui bisogna fabbricare armi, costruire opere inutili (come la Tav in Val di Susa) o consumare di più solo perché in questo modo si creano posti di lavoro. Anzi, dovremmo trovare il modo di liberarci dal lavoro per avere più tempo per noi stessi, per i nostri affetti e i nostri interessi, per crescere intellettualmente e goderci la vita. La maggior parte dei lavori di amministrazione (quelli che hanno a che fare con la movimentazione di scartoffie) si potrebbero delegare ai computer con piccoli accorgimenti e liberare un sacco di persone da queste occupazioni inutili da una prospettiva più ampia.

Questa la teoria. E la pratica? Qualcuno potrebbe domandarsi cosa accadrebbe al proprio stipendio già striminzito se venisse pure ridotto l'orario di lavoro. Ma questa è tutta un'altra storia. Nella maggior parte dei casi, ciò che viene percepito non è commisurato alla reale utilità del lavoro svolto, ma viene determinato dai perversi meccanismi del mercato. Una società cosciente della necessità di cambiare il sistema occupazionale nel modo che è stato descritto, può comprendere allo stesso tempo l'enorme portata della disuguaglianza e la necessità di porvi un limite. Nei moderni stati occidentali, ricchezza e reddito sono distribuiti sulla popolazione come in una coppa di champagne. Solo in Italia, i dieci uomini più ricchi detengono un patrimonio pari a quello dei tre milioni più poveri. È chiaramente una situazione insostenibile.

La questione dell'occupazione si accompagna inevitabilmente ad una profonda volontà di revisione dell'intero sistema economico e sociale in cui viviamo. È impensabile procedere per compartimenti stagni. Ma, anche solo per iniziare la discussione, occorre affrancarsi da vetuste ideologie e fallaci teorie mai suffragate dalla realtà, per abbracciare un modo di ragionare più concreto e lineare. Non è semplice farlo, come non è facile abbandonare un sistema collaudato per uno sconosciuto, ma l'attuale crisi potrebbe portarci al crollo se non troviamo subito nuove ricette, che devono essere giocoforza differenti da quelle che ci hanno condotto fino a questo punto.