sabato 19 ottobre 2013

Se un giorno Berlusconi accoltellasse un passante

Riporto un estratto dell'intervento di Marco Travaglio alla manifestazione "Tutti in Piedi" del 17/06/2011 (guarda il video).
«Io immagino cosa succederebbe se un giorno (...) così, per sfizio, per vedere l'effetto che fa, [Berlusconi] accoltellerà un passante. Io immagino il momento in cui conficca il pugnale nella schiena del passante e passa di lì Ghedini e dice: "Beh, è chiaro, è un'arma giocattolo, lui è uno zuzzurellone!", poi passa Sallusti e dice: "Anche Kennedy accoltellava Marilyn Monroe, anche Vendola nelle spiagge dei nudisti ne accoltella uno dopo l'altro" e poi Ferrara: "Via, basta moralismi! Chi non ha mai accoltellato qualcuno per la strada?!" e infine Belpietro: "Cosa ci faceva quel passante con la schiena puntata contro il pugnale del presidente del consiglio?! E chi l'ha mandato?!"»
Questa storiella è chiaramente un parodosso ma aiuta a comprendere a quale livello parossistico sia arrivato il dibattito politico italiano. La logica è resa subalterna alla convenienza politica. La verità oggettiva non importa, conta solo avere la risposta pronta, surclassare l'avversario nella discussione. Chiediamoci cosa penserebbe di noi uno straniero che arrivasse oggi in Italia e vedesse uno a caso dei nostri talk show: ci prenderebbe per matti. E forse non avrebbe tutti i torti.

giovedì 10 ottobre 2013

Una nuova idea di lavoro

Lo potete chiedere all'economista o all'operaio, all'avvocato o al commerciante, al politico o all'immigrato. Alla domanda su quale sia attualmente la principale priorità politica vi risponderanno tutti il lavoro. Economisti e politici si spingono più in là e ripetono come fosse un mantra che, per creare occupazione, è indispensabile che l'economia cresca. Peccato che, dal 1977 al 2009, gli occupati in valore assoluto sono aumentati del 15% a fronte di un Pil più alto del 1300% (dati Istat). Inoltre, resta da capire come sia possibile una crescita infinita all'interno di un mondo con risorse in numero finito.

Oggi ci troviamo nel bel mezzo della peggiore crisi economica di sempre e la disoccupazione è al 12,2% (quella giovanile addirittura al 40,1) ma, a differenza di quanto possiamo pensare, i valori del passato non si discostano di molto da quelli attuali: tra il 1977 (anno di inizio delle serie storiche dell'Istat) e il 2009, il tasso di disoccupazione si è attestato su una media del 9,5% e, già nel triennio che va dall'87 all'89, aveva raggiunto la soglia del 12% per poi oscillare tra il 10 e l'11 per tutti gli anni '90. Si potrebbe pensare che la crisi non stia facendo molti danni. In realtà il tasso di disoccupazione non riesce a cogliere interamente il disagio legato al mondo del lavoro.

Infatti include solo chi non ha un'occupazione e ne cerca una, ma ci sono numerose altre categorie di persone che vengono colpite in qualche modo dal problema della “mancanza di lavoro”: gli scoraggiati (che non hanno un lavoro e non lo cercano più), i cassintegrati, coloro che sono costretti ad un part-time quando vorrebbero lavorare a tempo pieno e i precari (perlopiù giovani). Secondo i calcoli di Ires-Cgil, tutta questa area del “disagio” (inclusi i disoccupati) comprende 9 milioni di persone. Non pochi su una popolazione di 60. E questi dati difficilmente miglioreranno nel lungo periodo. La competitività dei paesi emergenti e in via di sviluppo grazie al basso costo del lavoro e la sempre maggiore automazione della produzione rendono la crisi che stiamo vivendo di carattere strutturale.

Forse è giunto il momento di cambiare il concetto di lavoro così come l'abbiamo concepito fino ad oggi. Il sistema economico capitalista ci spinge a considerare il lavoro come un fine in sé: otto ore al giorno in cui non importa cosa si fa, ma quanto si guadagna, che deve essere abbastanza per soddisfare i nostri bisogni. In questa logica, un lavoro vale l'altro. La sua utilità non è importante, importa solo quanto è remunerativo. Costruire armi vale quanto assistere gli anziani, ideare pubblicità ha tanta dignità quanto coltivare cibo, combattere in Afghanistan è uguale ad insegnare nelle scuole. Nessuno fa dei casi di coscienza sulla possibilità che certe occupazioni siano giuste o meno.

Ora, immaginiamo di naufragare su un'isola deserta e di realizzare che nessuno verrà in nostro soccorso, dovremmo quindi organizzarci per sopravvivere. Cosa faremmo? Quale sarebbe la priorità? Stabilire che tutti devono lavorare un certo numero di ore senza considerare il lavoro che c'è da svolgere oppure stabilire ciò che c'è da fare e poi suddividersi i compiti? Perché questo discorso non dovrebbe valere anche nel nostro sistema economico? È un paradosso che la maggior parte della popolazione lavori otto e più ore al giorno quando ci sono milioni di persone a spasso, che non possono dare il loro contributo allo sviluppo della società e non riescono a vivere dignitosamente. “Lavorare meno per lavorare tutti” non dovrebbe essere solo uno slogan, ma un'ovvietà.

Dobbiamo ribaltare la logica per cui bisogna fabbricare armi, costruire opere inutili (come la Tav in Val di Susa) o consumare di più solo perché in questo modo si creano posti di lavoro. Anzi, dovremmo trovare il modo di liberarci dal lavoro per avere più tempo per noi stessi, per i nostri affetti e i nostri interessi, per crescere intellettualmente e goderci la vita. La maggior parte dei lavori di amministrazione (quelli che hanno a che fare con la movimentazione di scartoffie) si potrebbero delegare ai computer con piccoli accorgimenti e liberare un sacco di persone da queste occupazioni inutili da una prospettiva più ampia.

Questa la teoria. E la pratica? Qualcuno potrebbe domandarsi cosa accadrebbe al proprio stipendio già striminzito se venisse pure ridotto l'orario di lavoro. Ma questa è tutta un'altra storia. Nella maggior parte dei casi, ciò che viene percepito non è commisurato alla reale utilità del lavoro svolto, ma viene determinato dai perversi meccanismi del mercato. Una società cosciente della necessità di cambiare il sistema occupazionale nel modo che è stato descritto, può comprendere allo stesso tempo l'enorme portata della disuguaglianza e la necessità di porvi un limite. Nei moderni stati occidentali, ricchezza e reddito sono distribuiti sulla popolazione come in una coppa di champagne. Solo in Italia, i dieci uomini più ricchi detengono un patrimonio pari a quello dei tre milioni più poveri. È chiaramente una situazione insostenibile.

La questione dell'occupazione si accompagna inevitabilmente ad una profonda volontà di revisione dell'intero sistema economico e sociale in cui viviamo. È impensabile procedere per compartimenti stagni. Ma, anche solo per iniziare la discussione, occorre affrancarsi da vetuste ideologie e fallaci teorie mai suffragate dalla realtà, per abbracciare un modo di ragionare più concreto e lineare. Non è semplice farlo, come non è facile abbandonare un sistema collaudato per uno sconosciuto, ma l'attuale crisi potrebbe portarci al crollo se non troviamo subito nuove ricette, che devono essere giocoforza differenti da quelle che ci hanno condotto fino a questo punto.