sabato 7 dicembre 2013

La povertà, il primo problema

In questi giorni sta facendo molto discutere il rapporto pubblicato dal Censis sulla società italiana (definita "sciapa", infelice, furba e immorale), ma forse il dato più importante che è stato diffuso nell'ultima settimana è quello dell'Eurostat sulla povertà. Secondo l'istituto di statistica europeo, nell'eurozona, l'Italia è seconda solo alla Grecia per il rischio di povertà e di esclusione sociale delle famiglie.
In base ai dati che si riferiscono al 2012 (quindi possiamo solo presumere che oggi siamo messi peggio), nel nostro paese il 29,9% della popolazione, ossia 18,2 milioni di persone, sono a rischio povertà. Per essere definiti a "rischio povertà", occorre soddisfare tre requisiti:
  • vivere in una famiglia con un reddito inferiore al 60% rispetto al reddito medio del paese a cui si fa riferimento. Meno di mille euro al mese, per farla breve;
  • avere "forti mancanze materiali", che significa non possedere risparmi per pagare spese impreviste, non riuscire a riscaldare la casa, non possedere un'auto;
  • vivere in una famiglia con una bassa intensità di lavoro, i cui membri quindi non riescono a lavorare a tempo pieno.
È vero che il dato potrebbe essere leggermente falsato dall'evasione fiscale ma, approsimativamente, possiamo affermare che un terzo della popolazione non riesce a lavorare abbastanza per permettersi una vita dignitosa e questo dovrebbe essere il tema principale nel dibattito politico. Abbiamo capito che l'uscita dalla crisi non è poi così vicina e la disoccupazione dovrebbe addirittura aumentare nel 2014, quindi non possiamo aspettare che l'economia riparta (sempre che si decida a farlo). Come possiamo tamponare la situazione della povertà? Con un reddito minimo garantito, uno strumento di cui sono dotati quasi tutti i paesi della zona euro (tranne Italia e Grecia, guarda caso). Qualche centinaia di euro erogati dallo stato in cambio dell'obbligo di accettare qualsiasi lavoro venga proposto. In presenza di una rete di protezione sociale così forte, si potrebbero anche abbattere alcune tutele che rendono il mercato del lavoro troppo rigido, in modo da far muovere l'economia più rapidamente. Rimane solo il problema dei fondi, che si possono recuperare attuando una serie politica di redistribuzione della ricchezza e dei redditi (i ricchi italiani sono i più ricchi d'Europa, vedi link), accompagnata da una stretta sull'evasione fiscale.
La strada per risolvere il problema è chiara, l'unica cosa che manca è la volontà politica.

sabato 19 ottobre 2013

Se un giorno Berlusconi accoltellasse un passante

Riporto un estratto dell'intervento di Marco Travaglio alla manifestazione "Tutti in Piedi" del 17/06/2011 (guarda il video).
«Io immagino cosa succederebbe se un giorno (...) così, per sfizio, per vedere l'effetto che fa, [Berlusconi] accoltellerà un passante. Io immagino il momento in cui conficca il pugnale nella schiena del passante e passa di lì Ghedini e dice: "Beh, è chiaro, è un'arma giocattolo, lui è uno zuzzurellone!", poi passa Sallusti e dice: "Anche Kennedy accoltellava Marilyn Monroe, anche Vendola nelle spiagge dei nudisti ne accoltella uno dopo l'altro" e poi Ferrara: "Via, basta moralismi! Chi non ha mai accoltellato qualcuno per la strada?!" e infine Belpietro: "Cosa ci faceva quel passante con la schiena puntata contro il pugnale del presidente del consiglio?! E chi l'ha mandato?!"»
Questa storiella è chiaramente un parodosso ma aiuta a comprendere a quale livello parossistico sia arrivato il dibattito politico italiano. La logica è resa subalterna alla convenienza politica. La verità oggettiva non importa, conta solo avere la risposta pronta, surclassare l'avversario nella discussione. Chiediamoci cosa penserebbe di noi uno straniero che arrivasse oggi in Italia e vedesse uno a caso dei nostri talk show: ci prenderebbe per matti. E forse non avrebbe tutti i torti.

giovedì 10 ottobre 2013

Una nuova idea di lavoro

Lo potete chiedere all'economista o all'operaio, all'avvocato o al commerciante, al politico o all'immigrato. Alla domanda su quale sia attualmente la principale priorità politica vi risponderanno tutti il lavoro. Economisti e politici si spingono più in là e ripetono come fosse un mantra che, per creare occupazione, è indispensabile che l'economia cresca. Peccato che, dal 1977 al 2009, gli occupati in valore assoluto sono aumentati del 15% a fronte di un Pil più alto del 1300% (dati Istat). Inoltre, resta da capire come sia possibile una crescita infinita all'interno di un mondo con risorse in numero finito.

Oggi ci troviamo nel bel mezzo della peggiore crisi economica di sempre e la disoccupazione è al 12,2% (quella giovanile addirittura al 40,1) ma, a differenza di quanto possiamo pensare, i valori del passato non si discostano di molto da quelli attuali: tra il 1977 (anno di inizio delle serie storiche dell'Istat) e il 2009, il tasso di disoccupazione si è attestato su una media del 9,5% e, già nel triennio che va dall'87 all'89, aveva raggiunto la soglia del 12% per poi oscillare tra il 10 e l'11 per tutti gli anni '90. Si potrebbe pensare che la crisi non stia facendo molti danni. In realtà il tasso di disoccupazione non riesce a cogliere interamente il disagio legato al mondo del lavoro.

Infatti include solo chi non ha un'occupazione e ne cerca una, ma ci sono numerose altre categorie di persone che vengono colpite in qualche modo dal problema della “mancanza di lavoro”: gli scoraggiati (che non hanno un lavoro e non lo cercano più), i cassintegrati, coloro che sono costretti ad un part-time quando vorrebbero lavorare a tempo pieno e i precari (perlopiù giovani). Secondo i calcoli di Ires-Cgil, tutta questa area del “disagio” (inclusi i disoccupati) comprende 9 milioni di persone. Non pochi su una popolazione di 60. E questi dati difficilmente miglioreranno nel lungo periodo. La competitività dei paesi emergenti e in via di sviluppo grazie al basso costo del lavoro e la sempre maggiore automazione della produzione rendono la crisi che stiamo vivendo di carattere strutturale.

Forse è giunto il momento di cambiare il concetto di lavoro così come l'abbiamo concepito fino ad oggi. Il sistema economico capitalista ci spinge a considerare il lavoro come un fine in sé: otto ore al giorno in cui non importa cosa si fa, ma quanto si guadagna, che deve essere abbastanza per soddisfare i nostri bisogni. In questa logica, un lavoro vale l'altro. La sua utilità non è importante, importa solo quanto è remunerativo. Costruire armi vale quanto assistere gli anziani, ideare pubblicità ha tanta dignità quanto coltivare cibo, combattere in Afghanistan è uguale ad insegnare nelle scuole. Nessuno fa dei casi di coscienza sulla possibilità che certe occupazioni siano giuste o meno.

Ora, immaginiamo di naufragare su un'isola deserta e di realizzare che nessuno verrà in nostro soccorso, dovremmo quindi organizzarci per sopravvivere. Cosa faremmo? Quale sarebbe la priorità? Stabilire che tutti devono lavorare un certo numero di ore senza considerare il lavoro che c'è da svolgere oppure stabilire ciò che c'è da fare e poi suddividersi i compiti? Perché questo discorso non dovrebbe valere anche nel nostro sistema economico? È un paradosso che la maggior parte della popolazione lavori otto e più ore al giorno quando ci sono milioni di persone a spasso, che non possono dare il loro contributo allo sviluppo della società e non riescono a vivere dignitosamente. “Lavorare meno per lavorare tutti” non dovrebbe essere solo uno slogan, ma un'ovvietà.

Dobbiamo ribaltare la logica per cui bisogna fabbricare armi, costruire opere inutili (come la Tav in Val di Susa) o consumare di più solo perché in questo modo si creano posti di lavoro. Anzi, dovremmo trovare il modo di liberarci dal lavoro per avere più tempo per noi stessi, per i nostri affetti e i nostri interessi, per crescere intellettualmente e goderci la vita. La maggior parte dei lavori di amministrazione (quelli che hanno a che fare con la movimentazione di scartoffie) si potrebbero delegare ai computer con piccoli accorgimenti e liberare un sacco di persone da queste occupazioni inutili da una prospettiva più ampia.

Questa la teoria. E la pratica? Qualcuno potrebbe domandarsi cosa accadrebbe al proprio stipendio già striminzito se venisse pure ridotto l'orario di lavoro. Ma questa è tutta un'altra storia. Nella maggior parte dei casi, ciò che viene percepito non è commisurato alla reale utilità del lavoro svolto, ma viene determinato dai perversi meccanismi del mercato. Una società cosciente della necessità di cambiare il sistema occupazionale nel modo che è stato descritto, può comprendere allo stesso tempo l'enorme portata della disuguaglianza e la necessità di porvi un limite. Nei moderni stati occidentali, ricchezza e reddito sono distribuiti sulla popolazione come in una coppa di champagne. Solo in Italia, i dieci uomini più ricchi detengono un patrimonio pari a quello dei tre milioni più poveri. È chiaramente una situazione insostenibile.

La questione dell'occupazione si accompagna inevitabilmente ad una profonda volontà di revisione dell'intero sistema economico e sociale in cui viviamo. È impensabile procedere per compartimenti stagni. Ma, anche solo per iniziare la discussione, occorre affrancarsi da vetuste ideologie e fallaci teorie mai suffragate dalla realtà, per abbracciare un modo di ragionare più concreto e lineare. Non è semplice farlo, come non è facile abbandonare un sistema collaudato per uno sconosciuto, ma l'attuale crisi potrebbe portarci al crollo se non troviamo subito nuove ricette, che devono essere giocoforza differenti da quelle che ci hanno condotto fino a questo punto.

martedì 10 settembre 2013

Rat race

Scrive Massimo Fini sul Fatto Quotidiano del 7 settembre:
«In Svizzera, nel giro di poche settimane, si sono suicidati due top manager: Pierre Wauthier, 53 anni, direttore finanziario di Zurich, colosso delle assicurazioni, e Carsten Schloter, 49 anni, leader di Swisscom Telecomunicazioni. Wauthier era pressato dal suo capo perché raggiungesse obiettivi sempre più alti, finché, non potendone più, si è tolto la vita. Ancora più indicativo il caso di Schloter che aveva scritto: "Non puoi stare connesso con il lavoro 24 ore su 24, non puoi cancellare la famiglia, non puoi scordarti i tuoi figli, non puoi scordarti la vita". L'attuale modello di sviluppo è riuscito nella mirabile impresa di far star male anche chi sta bene. Figuriamoci gli altri»
E ciò che è più tragico, ci ha tolto la capacità di pensare che un altro modello di sviluppo e un altro stile di vita sono possibili. Cosa ha impedito a Wauthier e Schloter di mollare il loro lavoro e cercare un altro modo di vivere? Semplicemente, l'ignorare che ce n'è un altro.

martedì 3 settembre 2013

Ricchi e poveri: due Italie, una sola in crisi

A intervalli regolari, giornali e telegiornali ci vomitano addosso dati su dati riguardanti l'andamento della nostra economia. I politici li usano, in modo intercambiabile, per sostenere l'una o l'altra tesi. Inebetiti fissiamo quei grafici con le linee colorate che puntano immancabilmente verso il basso. Però spesso è difficile farsi un'idea sullo stato reale del paese. Le sterili cifre dell'Istat, inanellate l'una dietro l'altra, senza essere contestualizzate e analizzate, ci lasciano perplessi o indifferenti.
Allora serve proprio andare a vedere nella realtà quotidiana se l'Italia si muove o resta ferma. I nostri occhi, in questo caso, sono le telecamera di Presa Diretta, il programma di inchieste tv di Riccardo Iacona e della sua squadra, con la straordinaria capacità di narrazione che li contraddistingue.

La prima puntata di questa stagione è stata dedicata proprio alla situazione economica del paese e, più in particolare, al grande tema della disuguaglianza, spesso trascurato. Nella prima parte della trasmissione, ci viene offerto un viaggio nel favoloso mondo dei super ricchi, quel 10% della popolazione che detiene la metà della ricchezza nazionale. Quelli che, nonostante la crisi, sono diventati ancora più ricchi e si possono permettere di vivere nel lusso più sfrenato, su mega yacht da un milione di euro a settimana e in ville esclusive in un mondo dorato. I ricchi d'Italia che sono anche i più ricchi d'Europa.
In un gioco di chiaroscuri, nella seconda parte della puntata, i nostri sguardi si posano sull'Italia che non ce la fa più. Su chi perde il lavoro ed è costretto a rivolgersi alla Caritas. Su chi è in cassa integrazione e deve mantenere tre figli con qualche centinaio di euro al mese. Sulle fabbriche che chiudono e vengono trasferite all'estero. Sui volti disperati di chi ha perso la speranza nel futuro.

Allineate l'una a fianco all'altra, queste due Italie non sembrano nemmeno appartenere alla stessa nazione. E pensare che basterebbe uno spicchio della ricchezza dei più ricchi per risollevare le sorti dei più poveri e vivere in un paese più equo. Del resto, se una piccola élite di privilegiati può assicurarsi tanta opulenza è a causa di una società ingiusta, perché nessuno può sostenere che il lavoro di chi ha la villa a Porto Cervo valga centinaia di volte di più del lavoro dell'operaio che sgobba sulla catena di montaggio, così come parrebbero suggerire i loro conti corrente. La crisi che stiamo vivendo ci dice che queste disuguaglianze sono insopportabili tanto per le nostre coscienze quanto per il sistema economico, che infatti oggi è ingolfato e non sembra sulla strada del miglioramento.

A questo punto, per intervenire e cambiare le cose si deve chiamare in causa la politica, ma volgendo lo sguardo da quella parte, si cade nello sconforto più totale. Coloro che occupano le istituzioni non hanno nemmeno la sensibilità di conoscere questi problemi, figuriamo se hanno la minima volontà di risolverli, intenti come sono a litigarsi poltrone e prebende. Fino a che il principale oggetto di dibattito saranno l'Imu e i tentativi di Berlusconi di sfuggire alla giustizia non andremo da nessuna parte. Spetta a noi impegnarci in prima persona per ribaltare le sorti del paese. E la prima cosa è conoscere la realtà e capire cosa bisogna fare. Cominciate guardando la puntata di Presa Diretta.
 

martedì 30 luglio 2013

Perché Berlusconi non è perseguitato dai giudici

Trenta luglio. L'appuntamento tanto atteso quanto temuto dalla politica italiana è arrivato. Tra poco scopriremo, insieme al destino di Silvio Berlusconi, quello del governo e dell'assetto politico del paese. Il leader di quello che alcuni sondaggi indicano come il primo partito italiano rischia oggi di essere condannato definitivamente a 4 anni di reclusione (tre coperti da indulto e il resto commutabile in affidamento ai servizi sociali, o comunque in arresti domiciliari) e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, anche se sono possibili altri finali come un rinvio o l'assoluzione.

Oggi rischia di finire quella che dal Pdl viene definita come una guerra lunga vent'anni tra Berlusconi e la magistratura, ma in realtà è soltanto il tentativo di un uomo di salvare se stesso e che, per farlo, ha portato a picco un'intera nazione. Molti però si sono fatti abbindolare e credono alle balzane tesi per cui la magistratura starebbe perseguitando il Cavaliere. In realtà non c'è alcuna prova o indizio che confermi questa posizione. Si dice che sia un'anomalia l'enorme numero di processi che l'hanno visto imputato, ma questo significa soltanto che è un recidivo con una “naturale capacità a delinquere” (sentenza d'appello Mediaset). Si dice che le sue grane giudiziarie siano iniziate con la sua discesa in campo, ma Berlusconi era già stato messo sotto la lente d'ingrandimento delle Fiamme Gialle nel 1979 e poi amnistiato per la P2 nell'83. Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset e uno degli uomini più vicini all'ex premier, ha dichiarato che se Berlusconi non fosse entrato in politica sarebbe finito in bancarotta e dietro le sbarre.

Dopo il processo di primo grado sul risarcimento alla Cir di De Benedetti per aver rubato la Mondadori comprando un giudice, Berlusconi sembrò avere in mano la prova definitiva sulla sua presunta persecuzione giudiziaria, tant'è che andava in giro ad insinuare che di lì a poco sarebbe emersa chissà quale rivelazione sul giudice che aveva emesso la sentenza. Qualche tempo dopo, una delle sue televisioni mandò in onda un servizio in cui il giudice veniva ripreso da lontano mentre si recava dal barbiere e lo si scherniva per i suoi calzini color turchese.

Per dimostrare definitivamente che la magistratura non si è accanita sul povero Berlusconi, dobbiamo scomodare la matematica. Secondo Wikipedia, il Cavaliere è stato coinvolto o sfiorato in almeno una trentina di casi giudiziari. Ogni procedimento richiede l'intervento di molti magistrati: il gip, il gup, il giudice di primo grado, i giudici d'appello e quelli della Cassazione. Lo stesso Berlusconi afferma che 900 magistrati si sono occupati di lui. Ora, quante probabilità ci sono che siano tutti magistrati comunisti, come viene affermato dal Cavaliere e dai suoi sodali? Ammesso e non concesso che tutti i magistrati iscritti a Magistratura Democratica (la corrente di sinistra del sindacato delle toghe) siano pronti a mettere a repentaglio la propria carriera per condannarlo anche se innocente (un altro dei refrain della sua difesa), com'è possibile che tutti quelli che incontra provengano da questa associazione se i suoi membri rappresentano meno del 10% del totale dei magistrati? Evidentemente, in politica, anche la matematica diventa un'opinione.

Al contrario, i giudici sono stati fin troppo buoni con il Cavaliere, concedendogli spesso le attenuanti generiche e sorvolando sul fatto che durante il processo Ruby egli stipendi tutti i testimoni (che li paghi lui stesso come con le ragazze delle “cene eleganti” o noi contribuenti come con i parlamentari coinvolti). L'opinione pubblica spesso non capisce che i magistrati non sono liberi di indagare, condannare o assolvere a loro piacimento, ma il loro comportamento deve aderire perfettamente a quanto prescrivono le centinaia di migliaia di leggi che popolano il nostro ordinamento.

La cosa più grave di tutto ciò è il tentativo, che dura da vent'anni, di demolire il potere giudiziario perché ritenuto troppo “giustizialista”. In realtà, se uno conoscesse il diritto degli altri paesi, saprebbe che il nostro sistema giudiziario è uno dei più garantisti del mondo. Solo in Italia sono garantiti a chiunque i tre gradi di giudizio, negli Stati Uniti solo con nuove prove si può accedere al secondo grado e la Corte Suprema esamina solo pochi casi all'anno. Inoltre nei sistemi anglosassoni di common law spesso a giudicare c'è una giuria popolare (quindi composta da persone che non conoscono approfonditamente la legge) che condanna e assolve in base al colore della pelle dell'imputato o al suo carisma. Per non parlare dei paesi in cui la magistratura inquirente è subalterna all'esecutivo.

Insomma, la storia della persecuzione giudiziaria nei confronti di Silvio Berlusconi è soltanto una balla inventata da un uomo talmente ricco e potente da così tanto tempo che, inconsciamente, nemmeno riesce ad immaginare che vengano posti limiti a ciò che può o non può fare. Così usa un potere politico e mediatico che nessun altro imputato al mondo possiede per cercare di sfuggire alle sue responsabilità. Quanto ai parlamentari del Pdl, lo difendono a spada tratta perché sanno perfettamente che, senza il loro leader, il partito creato a sua immagine e somiglianza non lo voterebbe più nessuno e loro finirebbero nell'oblio. Così l'Italia è rimasta bloccata per anni, appesa alle vicende giudiziarie di un solo uomo. Oggi questo potrebbe finire. Stiamo a vedere.

venerdì 26 luglio 2013

Caso Shalabayeva: responsabilità di chi?

Venerdì è stata votata la mozione di sfiducia individuale presentata da M5S e Sel nei confronti del ministro dell’interno e vicepremier Angelino Alfano per le sue responsabilità nel caso Shalabayeva, in quanto massima autorità politica del Viminale. È superfluo ricordare l’esito della votazione: il Pd ha dovuto chinare il capo (la responsabilità prima di tutto, non sia mai che il paese si trovi senza questo salvifico governo) e il Pdl ha vinto un’altra volta.

Della vicenda di Alma e Alua, rispettivamente moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov, principale oppositore del regime dittatoriale kazako, sappiamo ancora poco, ma le informazioni in nostro possesso ci bastano per esprimere un’opinione sull’accaduto. La donna e la bambina sono state prelevate dalla loro abitazione con un raid a cui hanno partecipato 40 agenti, la donna è stata tenuta 48 ore in uno dei centri per clandestini (vere e proprie carceri) per poi essere di fatto deportata nel suo paese, con una procedura al limite della legalità che fa impallidire la teoria sulle lungaggini della burocrazia italiana. Tutto ciò coordinato a regola d’arte da diplomatici kazaki che avevano praticamente preso possesso della stanza dei bottoni al ministero dell’interno. Ora, se anche qualche azzeccagarbugli riuscisse a dimostrare che, in base a qualche cavillo legale, le procedure seguite siano inoppugnabili (il che non sembra proprio), è chiaro che consegnare le famigliari di un dissidente politico al dittatore che lo perseguita, in modo che possa usarle come ostaggi, non è esattamente un atto di cui andare fieri.

In un paese normale, questi fatti porterebbero immediatamente la carica politica coinvolta (nella fattispecie il ministro dell’interno) a dimettersi senza nemmeno la necessità di interpellare il parlamento. Ma il nostro non è un paese normale. Così le opposizioni hanno dovuto presentare una mozione di sfiducia individuale nei confronti di Angelino Alfano. Era loro preciso dovere farlo e l’hanno fatto. Ciò che sorprende sono le reazioni stupefatte di diversi esponenti politici (soprattutto nella parte dem della maggioranza) alle barricate alzate dal Pdl intorno al suo segretario. Davvero potevano credere che si sarebbe dimesso spontaneamente per una “semplice” violazione dei diritti umani? Vogliamo ricordare che lo stesso Alfano proviene da una precedente esperienza governativa durante la quale naufraghi che avevano attraversato il Mediterraneo a bordo di carrette del mare venivano sistematicamente respinti indietro (senza verificare se potessero avanzare diritto d’asilo, un principio costituzionale) nelle braccia di un tiranno (Gheddafi, come quello kazako, sodale di Berlusconi) che li abbandonava nel deserto a morire di fame (fatti accertati da numerose inchieste giornalistiche).

È chiaro che le dimissioni di Alfano sono fortemente auspicabili ma, allo stesso tempo, sappiamo essere vane le speranze che arrivino per via dell’anomala natura del centrodestra nel nostro paese. Ciononostante non è la cacciata di Alfano quella che mi sembra più urgente al momento. Del resto quello che si può considerare il prestanome del Pdl ha i mesi contati: non appena Berlusconi verrà condannato per le sue vicende giudiziarie o si tornerà a elezioni con la candidatura supercompetitiva di Renzi, il Pdl sparirà e Alfano tornerà ad occupare la posizione sociale che gli compete. Ciò che mi preoccupa di più sono tutti quei funzionari e semplici agenti che hanno alacremente obbedito agli ordini dall’alto senza batter ciglio, anzi gioiendone per le promozioni che ne sarebbero conseguite (come hanno riportato alcune cronache giornalistiche). Qualcuno ai ranghi più alti è già saltato (ma solo per salvare il ministro), mentre tutto il resto dell’apparato non è stato nemmeno sfiorato. Si può dire che quelli sono uomini dello stato che stavano soltanto eseguendo le direttive assegnate, che stavano solo facendo il loro lavoro. Ma anche le guardie dei campi di concentramento facevano solo il loro lavoro. Ognuno è responsabile per le proprie azioni. Potevano anche non avere tutte le informazioni su quello che stava accadendo ma, umanamente, come si può permettere che una donna indifesa e la sua bambina di sei anni vengano trascinate via dalla loro casa (con annesse percosse ai loro famigliari parrebbe) e spedite dall’altra parte del mondo? Non sarebbe forse il caso di valutare anche le loro responsabilità? Non serve avere un cuor di leone per denunciare all’opinione pubblica, tramite la stampa, misfatti del genere. Basta avere una coscienza.

lunedì 1 luglio 2013

La favoletta per salvare il Pd

Negli ultimi mesi, a livello mediatico, è passato un messaggio tanto dirompente quanto erroneo: che il mancato varo del “governo del cambiamento” sia da imputarsi esclusivamente al Movimento 5 Stelle che non ha voluto in alcun modo collaborare con il Pd. Ma le condizioni poste da quest’ultimo erano davvero irricevibili.

L’opinione pubblica incolpa il M5S perché fin da subito ha detto di non volersi mischiare con i partiti responsabili dello sfascio del paese, mentre il Pd è apparso l’eroe pronto a immolarsi per il bene collettivo. In realtà, non è andata proprio così. Il Pd ha da subito trattato il M5S come una costola della sinistra, un Bertinotti qualsiasi, facendo promesse che assomigliavano più a slogan che a serie prese di posizione. Il centrosinistra ha improvvisamente scoperto temi come l’ambiente, la democrazia partecipata, i costi della politica su cui ha speso però parole vuote e piuttosto generiche. Inoltre, fra i famosi “otto punti”, Bersani ha indicato l’«urgenza» di una legge per regolamentare la vita interna dei partiti, obbligandoli ad adottare atti costitutivi e statuti, quindi organismi direttivi e regole interne. Non esattamente una cosa che possa accettare il M5S, con i suoi principi di democrazia diretta e interazione fluida, non mediata.

Ma il punto fondamentale di questo corteggiamento è il tipo di richiesta avanzata dai democratici. Il Pd ha messo sul piatto alcune monete di scambio per accaparrarsi i voti dei 5 stelle, che erano dovuti, dal loro punto di vista. Non ha, come avrebbe dovuto fare, avviato un dialogo alla pari, magari per un governo tecnico con il compito di mettere in atto i punti programmatici in comune alle due forze politiche. E non lo ha fatto, per un semplice motivo: non lo ha voluto fare. Davvero qualcuno può pensare che quei 101 che non hanno votato Prodi come presidente della repubblica e, più in generale, quella parte del Pd che ha spinto fin da subito per un accordo con il Pdl, avrebbe potuto accettare un governo con Pd e 5 stelle sullo stesso piano? Certo che no.

La storia per cui è tutta colpa del M5S è una favoletta che il Pd si racconta per non guardare alla sua drammatica situazione interna. Un partito diviso su tutto, con talmente tante anime da non averne nessuna. Un partito dove 101 persone affermano in assemblea che l’indomani avrebbero votato un candidato che poi, nel segreto dell’urna, tradiscono. E non un candidato qualsiasi, ma Prodi, uno dei fondatori del Pd e l’unico che è riuscito a sconfiggere Berlusconi non una, ma due volte. Un partito che non rispecchia la sua base, sicuramente più a sinistra e più desiderosa di cambiamento di chi la rappresenta in parlamento. È vero, come viene spesso ripetuto dai democratici, che Pdl e M5S sono due partiti anomali per l’importanza vitale rivestita dal loro leader per le sorti della forza politica, ma anche un partito con tutti i difetti del Pd è difficile da trovare negli altri paesi occidentali.

giovedì 30 maggio 2013

Analisi del voto delle elezioni amministrative

Domenica e lunedì, circa 7 milioni di italiani sono stati chiamati al voto per eleggere i consigli e le giunte di 565 comuni e della Val d'Aosta. La città più importante a montare le cabine elettorali è stata la capitale Roma e su di essa si concentrano i commenti post-elezioni, ma altri importanti capoluoghi, come Brescia, Vicenza, Treviso, Siena, Pisa, Avellino, hanno votato. Globalmente, i risultati sono stati favorevoli al centrosinistra sul centrodestra e hanno visto un'accentuata flessione del M5S se paragonato ai numeri delle elezioni nazionali.

Naturalmente, i commenti politici non si sono fatti attendere. Dagli ambienti vicini a Palazzo Chigi, c'è già chi vede nel voto un'espressione di apprezzamento dei confronti del governo. Per smontare questa tesi, però, basta guardare il dato sull'affluenza: solo il 62,4% degli aventi diritto si è recato ai seggi, a fronte del 77,2% del 2008. La cifra scende a 54,3% a Roma (-20 rispetto alla tornata precedente). L'astensione quindi esprime un profondo scollamento tra cittadini e politica e questo governo certamente contribuisce a questo processo. Infatti solo sommando i risultati di centrodestra e centrosinistra (le due componenti principali del governo di larghe intese) e paragonandoli al numero degli aventi diritto al voto si capisce che l'asserzione di cui sopra non regge.

Dall'altra parte, invece, si afferma che il centrosinistra continui a vincere solo dove propone candidati esterni al partito o, comunque, degli outsider. In effetti le principali città amministrate dalla coalizione di centrosinistra corrispondono a questo profilo: l'indipendente Doria a Genova, Pisapia e Zedda di Sel rispettivamente a Milano e Cagliari, De Magistris della fu Idv a Napoli e il (fu?) rottamatore Renzi a Firenze. Senza dimenticare la regione Sicilia in mano a Crocetta, certamente non un uomo di partito. Il successo di alcuni di questi candidati e ora di Marino a Roma (con il suo slogan «non è politica, è Roma») dà torto a chi afferma che gli italiani non sanno votare alle primarie perchè scelgono candidati troppo poco moderati che non sanno guardare a destra, ma non spiega il voto di domenica e lunedì, visto che il Pd e la sua coalizione hanno prevalso anche dove hanno presentato uomini molto vicini alla sua classe dirigente. A premiare il centrosinistra è stata l'affluenza o, meglio, la scarsa affluenza. Il Pd ha infatti un elettorato fortemente convinto e fedele al partito, concentrato perlopiù nella zona rossa dell'Italia centrale. Questo sfavorisce sia il Pdl, i cui elettori vanno alle urne solo per premiare la figura carismatica del leader Berlusconi, oggi in discesa costante per la sua ossessione verso la magistratura; sia il M5S, votato per la stragrande maggioranza, come ho già detto qui, da chi vuole esprimere un voto di protesta. L'esito di queste elezioni locali non è comunque generalizzabile alle elezioni politiche visto che i sondaggi, seppur considerati i loro numerosi fallimenti recenti, presentano valori del tutto differenti da quelli emersi anche nelle città più grandi (dove il voto è più politicizzato).

Ora, si potrebbe pensare che Pd e Pdl non vedano l'ora di andare a nuove elezioni per capitalizzare l'uno il successo alle amministrative e l'altro la posizione di vantaggio nei sondaggi. In realtà, non è così. A scombinare questa equazione c'è l'incognità Renzi, che spaventa tanto a destra quanto a sinistra. A destra perché Berlusconi sa perfettamente che Renzi, proprio come lui, è un personaggio carismatico che fa colpo sull'elettorato e che, con la sua faccia giovane e nuova, lo straccerebbe in un eventuale confronto elettorale. A sinistra perché il Pd sa molto bene che in eventuali nuove primarie prevarrebbe Renzi e finirebbe per rendere il partito a sua immagine e somiglianza, togliendo la terra sotto i piedi sia all'intellighenzia, che sarebbe rottamata, sia alla parte di sinistra, che a quel punto si troverebbe senza casa politica e, chissà, forse ne potrebbe cercare una nuova. Quindi aspettiamoci una vita lunga per questo governo.

Aggiornamento del 20/06/2013. A conferma dell'ultima parte dell'articolo sulla paura per il sindaco di Firenze, l'Huffington Post riporta questa dichiarazione che avrebbe pronunciato Daniela Santanché, riferendosi alle sentenze della magistratura sfavorevoli al Cavaliere: «È una situazione buona a far fuori Belrusconi. I tribunali lo massacrano, noi non possiamo fare niente, e quando siamo morti arriva Renzi».

venerdì 17 maggio 2013

Specchietti per le allodole

A volte accendo la tv sul telegiornale e mi sembra di vedere delle scimmie che sbraitano litigandosi tra loro una banana. Spesso i temi su cui verte il dibattito pubblico nel nostro paese sfiorano il ridicolo. Come l'orchestrina del Titanic che suonava mentre il transatlantico colava a picco, noi continuiamo a dibattere su questa e quella bazzecola su cui si è impuntato questo o quel partito per ragioni di mera propaganda elettorale.
Non è con la forma che ce l'ho, ma proprio con la sostanza. Non è mia intenzione unirmi ai cori di indignazione per la parolaccia occasionale o unirmi ai pompieri che auspicano un abbassamento dei toni. Spesso ci si scandalizza di più per la volgarità delle parole che non per la volgarità dei fatti. La vicenda di Battiato (che al termine "troie" non dava certamente un significato letterale) è emblematica. Ciò che non riesco a sopportare sono proprio le tematiche su cui ci si confronta.

Prendiamo l'Imu. Quella sulla prima casa è un'imposta che è sempre esistita, finché l'ultimo (o forse il penultimo) governo Berlusconi non decise di cancellarla. Lo aveva promesso in campagna elettorale, non poteva tirarsi indietro. Visto il successo che l'operazione aveva avuto alle elezioni del 2008, il Pdl ha pensato bene di fare il bis nell'ultima tornata e ora a noi tocca sorbirci una manfrina interminabile dato che, se Berlusconi non riuscisse a farla eliminare nuovamente, perderebbe la faccia davanti ai suoi elettori. Il punto è che l'Imu sulla prima abitazione è una tassa di 4 miliardi di euro, che sono briciole in confronto ai 700-800 miliardi che assorbono i bilanci dello stato e di tutti gli enti pubblici (corrisponde allo 0,5%). Sarebbe più utile intervenire su altre imposte, il cui taglio potrebbe rilanciare l'economia, invece si continua a dibattere su questa tassa per il suo valore elettorale.

Ma l'Imu si trova in buona compagnia: dall'altra parte della barricata si sventola la bandiera dello ius soli con annesse discussioni sulla posizione di Grillo. Capisco che il Pd voglia esaltare le uniche due-tre cose su cui è compatto, ma non può ammorbarci con una misura senza alcuna ripercussione nella realtà. Infatti, gli stranieri nati in Italia ottengono già la cittadinanza al compimento dei 18 anni. È vero, prima non ne possono godere, ma visto che di fatto cittadinanza significa solo diritto di voto, non cambia nulla.

Ora, capisco che l'Imu e lo ius soli possano essere considerate come questioni di principio su cui occorre intervenire (e anch'io posso dirmi in parte contrario all'Imu e favorevole allo ius soli), ma certamente temi come questi o l'abbandono di Twitter da parte di Mentana non possono monopolizzare il dibattito pubblico nel nostro paese. Come ha chiaramente spiegato Milena Gabanelli nell'ultima puntata di Report, i problemi economici sono un'assoluta urgenza da risolvere con radicali ripensamenti dell'attuale modello economico e la classe politica si scanna per delle piccolezze. La civiltà di un paese si misura anche dalla qualità del suo dibattito interno. Poi non stupiamoci se le classifiche mondiali della libertà di espressione ci piazzano in posizioni vergognose (l'Italia si colloca al 57° posto secondo Reporter senza frontiere e al 68° - nella sezione "parzialmente liberi" - secondo Freedom House). Ciò è dovuto allo stringente controllo esercitato dalla politica sui media, che occupa con armi di distrazione di massa come l'Imu e lo ius soli per nascondere la sua inettitudine nell'affrontare le vere emergenze di un paese che cambia e che essa non riesce più a rappresentare.

venerdì 3 maggio 2013

Il vecchio che avanza

Si può dire di tutto su Giorgio Napolitano. Si può dire che è di un'altra generazione da rottamare, si può dire che ha fatto male ad accettare la rielezione, si può essere più o meno in disaccordo con le sue idee e i suoi comportamenti da capo dello stato. Ma di certo non si può dire che non sia una persona intelligente. Anche Grillo ha dovuto riconoscerlo dopo il loro incontro nel primo giro di consultazioni. Tra i possibili premier che Napolitano poteva scegliere (in primis Amato, forse più apprezzato dal Pdl), ha scelto il 46enne Enrico Letta. Uno dei presidenti della repubblica più vecchi del mondo ha conferito l'incarico di presidente del consiglio ad uno dei più giovani.

L'età non è un dato di poco conto: è il modo di Napolitano di rispondere alle istanze di cambiamento così fortemente espresse dall'opinione pubblica. O dalla sua parte preponderante. Non dall'elettorato del Pdl che, per dirla con Marco Travaglio, seguirebbe Berlusconi anche se domani dicesse di voler fare la dittatura del proletariato. Non da chi ha votato Monti, persone di destra che non sopportano più l'avanspettacolo berlusconiano. Sicuramente quella domanda di profondo rinnovamento proveniva dagli elettori del Pd, di Sel, del Movimento 5 Stelle e da chi si è rifiutato di andare alle urne. Quindi, dalla maggioranza degli italiani.

Se le forze politiche guidate da Vendola e Grillo hanno mantenuto la barra dritta su questa strada, il Pd ha tragicamente tradito i suoi elettori. Durante l'ultima campagna elettorale e nelle prime settimane della nuova legislatura, il Pd aveva dato i primi segni di rottura con il passato: ha fatto le primarie sia per il capo della coalizione di centrosinistra sia per i parlamentari, ha messo nelle proprie liste frotte di giovani dalla faccia pulita, ha allontanato certi impresentabili per motivi giudiziari e, soprattutto, si è presentato in forte opposizione al berlusconismo, con il quale mai prima era stato così duro. Bersani, in prima persona, portava avanti questo nuovo corso del Pd e ha continuato a farlo anche dopo la sonora sconfitta delle urne. Quando però è arrivato il momento di mettere in gioco le sue abilità di politico con una lunga esperienza ha fatto un buco nell'acqua e si è preso insulti da tutti. Questo perché ha stravolto il giudizio dato su Grillo e il M5S in campagna elettorale e ha cominciato a inseguirli, chiedendo loro i loro voti come se gli fossero dovuti, data la supposta superiorità morale della sinistra, quando si sapeva fin dall'inizio che non li avrebbe mai avuti. Quindi si è arrivati all'elezione del capo dello stato, quando quella parte del Pd che ha sempre strizzato l'occhio al centrodestra ha ricominciato ad agitarsi e ha platealmente rivendicato il comando, spaccando il partito.

Come era ormai chiaro da tempo, la partita del Quirinale era indissolubilmente legata a quella per il nuovo governo e così è stato. La convergenza su Napolitano ha aperto la strada all'ipotesi governissimo o inciucio o larghe intese o grande coalizione, come dir si voglia, ce n'è per tutti i gusti. Eletto il capo dello stato, in un battibaleno, è stato conferito l'incarico a Enrico Letta e, da lì all'entrata in carica del nuovo governo, è passato pochissimo. La velocità delle operazioni di formazione dell'esecutivo e il disbrigo dei molteplici passaggi istituzionali è stata fulminea rispetto alla consuetudine e anche questo è un altro modo di Napolitano & co. di rispondere a modo loro alle domande di cambiamento, oltre alla fretta per dare il proverbiale segnale ai mercati e all'Europa. La strategia di Re Giorgio è stata subito mutuata da Letta che ha composto una squadra di governo giovane e con una notevole componente femminile, tra cui il primo ministro di colore della storia d'Italia. Un tentativo di dare la parvenza di una qualche riduzione dei tanto vituperati costi della politica è la decisione di abolire gli emolumenti per quei ministri che ricevono già l'indennità parlamentare.

Ma tutto ciò è vero cambiamento? È una reale rottura con il passato? Certo che no. Quelle di Napolitano e Letta sono mere opere di maquillage, atti simbolici che non cambiano la sostanza del governo appena varato, degno erede del precedente. Esso continuerà a percorrere la strada dell'austerità voluta dall'Europa senza poter intervenire sui mali atavici del nostro paese, come l'evasione fiscale, la corruzione e, più in generale, il deficit di legalità, perché Berlusconi impedirà qualsiasi passo avanti in tal senso, essendo preoccupato più dai suoi processi che dai problemi dell'Italia. Chi deve rammaricarsene di più è il Pd che ha stravolto le promesse fatte ai propri elettori e ha preferito finire di nuovo nelle braccia di Berlusconi, in piena sindrome di Stoccolma, piuttosto che aprire un dialogo alla pari con il M5S. Come disse qualcuno, con questi qui non vinceremo mai.

martedì 26 marzo 2013

Il M5S ha truffato gli italiani. Evviva il M5S!

Da giorni schiere di editorialisti e opinionisti tuttologi si stanno cimentando nell'esegesi del comportamento dei "marziani" (ipse dixit) atterrati nei palazzi del potere romani, cioè i neo parlamentari del Movimento 5 Stelle. Tra le molte mistiche interpretazioni c'è chi (a sinistra) li bolla come fascistoidi da strapazzo e chi (a destra) li annovera tra le file dell'Armata Rossa. In pochi riescono a capire questo nuovo fenomeno politico.
In realtà alcune analisi hanno colpito nel segno sottolineando la provenienza trasversale degli elettori grillini, da destra come da sinistra, dalle classi più istruite come da quelle meno, dal Nord come dal Sud. In realtà una distinzione che si può fare c'è. E riguarda le motivazioni personali che hanno dettato il voto per il M5S. Per capire le due differenti dimensioni, dobbiamo prendere in considerazione un punto temporale, che è quello delle scorse elezioni amministrative, nel maggio 2012.

Infatti, prima di quell'appuntamento elettorale, il movimento grillino era totalmente sconosciuto ai più e nei mass media tradizionali i riferimenti ad esso potevano essere contati sulle dita di una mano. I sondaggi lo davano sotto il 5%. Coloro che sostenevano il M5S fino ad allora erano perlopiù persone che provenivano da una cultura di sinistra, attivisti attenti all'ambiente e ai diritti.
A partire dal giorno dopo le elezioni amministrative, giornali e tv hanno cominciato ad accorgersi del nuovo fenomeno 5 Stelle, hanno iniziato a rincorrere i grillini che però si rifiutavano alle loro sirene. I giornalisti così dovevano arrangiarsi da soli nel raccontare la nuova forza politica e così si concentravano quasi esclusivamente sulle critiche alla casta, sulla rottura con i partiti tradizionali, sottolineando la freschezza, la semplicità e le facce giovani dei militanti pentastellati. Al racconto giornalistico si sono aggiunte le invettive e gli insulti gratuiti ai grillini da parte di tutti quei politici che appaiono sempre nei talk show ma che nessuno vorrrebbe più vedere, da destra a sinistra, e che quindi spingono gli italiani nelle braccia dei loro avversari. Il combinato disposto di questi fattori ha generato un'enorme esposizione mediatica del Movimento 5 Stelle che ha fatto incetta di consensi tra chi è stanco della vecchia classe politica per la sua autoreferenzialità e inconcludenza.
Questi elettori sono però molto diversi da quelli che sostenevano il M5S in precedenza: non hanno forti e radicate convinzioni politiche e ideologiche e provengono da tutti i vecchi schieramenti in modo trasversale. Grillo ha colto da subito l'opportunità, accentuando nei suoi comizi-spettacoli la critica alla politica tradizionale. Anzi, ha fatto di più. Per intercettare anche l'elettorato in fuga dal centrodestra, ha allargato il programma elettorale del Movimento a questioni sensibili a quell'area politica - come le tasse, Equitalia, il redditometro - o attenuando la critica all'evasione fiscale.

Queste nuove frange di votanti oggi potrebbero irrigidirsi sapendo che gli eletti alle camere del M5S fanno parte del nucleo originario degli attivisti grillini. Infatti, essi sono stati scelti attraverso le cosiddette "parlamentarie", alle quali poteva candidarsi soltanto chi si fosse già presentato in una lista comunale o regionale in elezioni precedenti e non fosse stato eletto. Questi nuovi parlamentari a 5 stelle, insieme a Grillo, stanno portando avanti un programma profondamente radicale, quasi rivoluzionario, senza però che a questo corrisponda un reale volontà da parte di tutti gli elettori grillini. In questo senso l'ex comico e i suoi sodali hanno truffato gli italiani, facendo leva su sentimenti di avversione nei confronti della malapolitica per cambiare l'Italia in profondità. A ben pensarci, però, hanno fatto ciò che la sinistra non è riuscita a fare nell'ultimo ventennio: hanno utilizzato armi tradizionalmente appartenenti a Berlusconi, come l'incisività comunicativa, per poter vincere le elezioni e imporre un'agenda di cambiamento con temi come la solidarietà, un nuovo modello di sviluppo, un'economia solidale, una maggiore attenzione verso i diritti e la tutela dell'ambiente.

mercoledì 13 febbraio 2013

Un Fantasma in vetta alla classifica

Non so se sono io o è una necessità comune, ma personalmente ho bisogno di ascoltare un disco più volte prima di esprimere un giudizio onesto e circostanziato. Di primo acchito le canzoni mi sembrano tutte piatte e uguali poi, man mano che procedo con gli ascolti, ogni pezzo comincia ad assumere la sua fisionomia. Così, per scrivere questa recensione, mi sono preso un po' di tempo dal 29 gennaio, giorno in cui è stato pubblicato Fantasma, l'ultimo disco dei Baustelle.

Dopo I Mistici dell'Occidente (sicuramente il suo album più rock), la band di Montepulciano realizza un progetto pensato integralmente per l'orchestra, abbracciando una vocazione che traspariva anche dalle opere precedenti. Fantasma è un concept album o, più precisamente, un disco incentrato su tema specifico, quello del tempo, che ne fa una colonna sonora senza film, come qualcuno l'ha definito. Sono presenti le due dimensioni del tempo: quella della vita, cioè l'inizio del tempo, alla quale i Baustelle fanno quasi un'esortazione, e quella della morte come fine del tempo.

La prima canzone, Nessuno, secondo molti la migliore, è quasi un manifesto politico: l'anarchico Bianconi canta ciò in cui crede e in cui non crede, concludendo la canzone con un'appello all'amore. Del resto tutto l'album è permeato da riferimenti politici (che peraltro sono la prima cosa che guardano giornali e siti d'informazione) e sociologici, come i passaggi sul «figlio di troia che appalta la Rai» o sui «Cavalieri del Lavoro simili a Gesù: non votiamo gli uomini, non li votiamo più». Che comunque sono approcci ai temi della politica fatti da un livello trascendente. Nessuno è anche un fulgido esempio della predilizione e della sublimità di Bianconi per gli ossimori: magistrale «sesso orale e santità». Il tempo si blocca in Diorama, ovvero ciascuna delle vetrine del Museo di Storia Naturale di Milano dove vengono ricostruite scene naturali, come in una fotografia che immortala un preciso momento e lo rende per sempre. Monumentale invece parla della «vaga oscurità» dell'omonimo cimitero del capoluogo lombardo (dove sia Bianconi che Rachele vivono). Sebbene la canzone parli del luogo triste o "oscuro" per eccellenza, è anch'essa un appello all'amore. Nel ritornello, ci invita a trascurare tv e Internet per un giorno e passare un po' di tempo con chi amiamo, con i nostri cari. Perché un giorno, forse questo è il sottotesto, potrebbero non esserci più. L'analisi sociologica di questo disco è offerta da Maya colpisce ancora, dove vengono denudate le contraddizioni della nostra società: i miti del potere e del consumismo, quello dell'apparire e della falsa felicità. La sentenza è tranchant: «esco, non ho paura: morte sicura viviamo già». Arriviamo a Conta l'inverni, dove un inedito Bianconi si cimenta senza risultati troppo brillanti col romanesco, ma addosso lui stona parecchio. Dopo il buon auspicio de L'estinzione della razza umana, giungiamo a Radioattività, che oserei definire un inno alla vita e guarda caso è l'ultima canzone dell'album, forse a mo' di testamento profetico. In quest'ultimo pezzo, Bianconi invita ad avere fede, ma la fede baustelliana è una spiritualità diverso dal concetto di dio, al massimo si allinea a quella degli dei.

Insomma, i Baustelle sono riusciti a partorire un'altra opera di notevole bellezza segnando un ulteriore tappa di un percorso artistico di maturazione che non vede declino e non scade nella musica commerciale. In un panorama musicale come quello italiano, dove vanno per la maggiore i prodotti dei talent e dove chi fa rap canta perlopiù di se stesso che fa rap, Fantasma rappresenta una boccata di aria fresca.

venerdì 11 gennaio 2013

La fine della seconda repubblica

La Repubblica Italiana è nata dalla Resistenza. Si sa, nei momenti difficili le persone tirano fuori il meglio di sé. Così, la classe dirigente e la classe politica uscite da quella tragica e al contempo meravigliosa tragedia sono state probabilmente le migliori di sempre. Fra quei politici c'erano persone che avevano conosciuto ristrettezze economiche e avevano visto gli orrori e la distruzione della guerra ma, in qualche modo, la negazione della libertà e della giustizia all'esterno aveva consolidato questi valori nelle loro menti. Quelle straordinarie personalità riuscirono a mettere da parte le loro divisioni per dar vita a quella che qualcuno definisce, non a torto, la più bella costituzione del mondo.
Certo, non era tutto rosa e fiori: la situazione economica era di estrema povertà, il paese era in larga misura subalterno agli Stati Uniti e il completamento della costruzione dello stato di diritto e dello stato sociale era di là da venire. Ma quei momenti furono forse i più alti che l'Italia abbia mai attraversato.

Nei decenni, però, tutto è cominciato a decadere. L'economia si è sviluppata ma su fondamenta fragili: la grande imprenditoria italiana è sempre stata troppo dipendente dallo stato. I partiti si sono trasformati in apparati di potere che accumulavano ed elargivano prebende a soggetti scelti per cooptazione. Quando il sistema raggiunse il suo punto di rottura e cominciarono a piovere gli avvisi di garanzia per i parlamentari di tutte le forze politiche inviati dal pool di Mani Pulite, fu chiaro che la prima repubblica era finita e con essa se ne andava un pezzo dell'Italia intesa come sistema di valori forgiati dai costituenti nel dopoguerra. I vecchi partiti sono stati spazzati via e con essi le loro ideologie, quelle che hanno caratterizzato l'Ottocento e il Novecento. È finita in questo modo la prima repubblica.

L'Italia si è gettata nelle braccia di due nuovi movimenti: Forza Italia e Lega Nord. Entrambi promettevano rinnovamento: l'uno era la creatura di un uomo fatto da sé che garantiva la rivoluzione liberale e l'altro intendeva rompere con i mali dei vecchi partiti ladri.
Certo, Berlusconi aveva già in parte dimostrato di essere un pericolo per la libertà di stampa usando il suo impero mediatico per la propria campagna elettorale e costringendo Montanelli ad andarsene dal giornale che aveva fondato. E certo, la Lega era fin dagli inizi un movimento costruito su basi razziali. Però essi apparivano comunque come il nuovo che avanzava e che poteva innestare il cambiamento.
Solo più tardi il berlusconismo si è dimostrato essere un fortissimo agente patogeno per la libertà d'espressione, la giustizia e le istituzioni, favorito dalla scarsa opposizione di un parlamento il cui livello di onestà, etica e coerenza non è mai stato più basso.
Fortunatamente, fattori esterni sono intervenuti a mettere in crisi questo sistema tanto da farlo cadere.

Lo scontro epico di ieri sera tra Berlusconi e i suoi maggiori detrattori di questi anni, Santoro e Travaglio, ha rappresentato l'atto conclusivo della seconda repubblica. La trasmissione ha abbandonato per un giorno il suo obiettivo di fare informazione per celebrare un rito catartico dove le due fazioni si sono consumate nel duello finale, un combattimento indegno come indegno è stato questo ultimo ventennio. L'ultima parte del secondo intervento di Marco Travaglio ci ha fatto capire come questi anni siano stati uno spreco di tempo: si poteva risalire dall'abisso scavato dagli scandali di Mani Pulite e invece Berlusconi ha trascinato l'Italia ancora più in fondo. Un altro pezzo di quell'Italia libera e giusta pensata dai padri costituenti se n'è andato. Il resto dello spettacolo è stata semplicemente la rappresentazione della fine dell'ideologia berlusconiana.

Ora si aprono le porte della terza repubblica. L'Italia dovrebbe vedere un nuovo clima di fiducia dato che Monti ha restituito al paese la sua credibilità internazionale. Come dei ragazzini contenti dell'approvazione dei loro coetanei, gli italiani si sentono di nuovo considerati dalla comunità internazionale e per molti questo è l'obiettivo più importante. Se non fosse che il paese è in balia di una spaventosa crisi economica generata dai dogmi di una nuova idelogia: quella dei vincoli di bilancio imposti dall'Unione Europea. Questi diktat partoriti da una finanza virtuale completamente slegata dall'economia reale hanno polarizzato lo scontro politico: da una parte chi non osa metterli in discussione, dall'altra chi si apre a una revisione di questi e degli dogmi che stanno portando il paese a scomparire.
La guerra tra queste due nuove fazioni eroderà un altro pezzo di quell'Italia che abbiamo ereditato dalla Resistenza. E se la parte sbagliata prevarrà, probabilmente non ne resterà più niente.